La nostra intervista allo scatenato regista spagnolo è uno dei nove autori del progetto collettivo “Words with Gods”, pellicola sul rapporto tra l’uomo e Dio, presentata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.
Un killer uccide un uomo di fronte alla sua donna. Colpito a sua volta, fugge nella notte: per salvarsi sale sul taxi di uno strampalato tassista che, scambiandolo per un prete, lo supplica di andare a confessare suo padre, prossimo alla morte, ateo impenitente.
Comincia come un action movie il corto La confessione, uno dei nove segmenti del progetto collettivo “Words with God”, presentato fuori concorso alla Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia. Autore del cortometraggio è Alex de la Iglesia, regista spagnolo di fede cattolica chiamato dall’amico e collega Guillermo Arriaga, ideatore del progetto, a prendere parte a queste conversazioni con il divino. Nei pochi minuti a disposizione de La Iglesia condensa tutto il suo cinema: commistione di generi, ritmo frenetico, ironia dissacrante sono i suoi tratti distintivi, così come la scrittura brillante; da più di venti anni autore di culto del cinema spagnolo e non solo – suo grandissimo estimatore è il bulimico Quentin Tarantino -, de La Iglesia è ormai una figura di riferimento per gli appassionati di horror e pulp.
Arrivato a Venezia insieme ad Arriaga e agli altri registi coinvolti, l’indiana Mira Nair, lo jugoslavo Emir Kusturica, il giapponese Hideo Nakata, l’israeliano Amos Gitai, l’argentino Hector Babenco, l’iraniano Bahman Ghobadi e l’australiano Warwick Thornton, de La Iglesia, di ritorno al Lido dopo la vittoria, nel 2010, del Leone D’Argento alla regia per il film Balada triste de trompeta (in Italia Ballata dell’odio e dell’amore), ci ha parlato del suo rapporto con Dio, dell’idea che si è fatto dell’amore, del suo cinema, dei social network e del desiderio di realizzare une serie tv.
"La confessione"
E’ curioso vederti parlare di religione dopo il tuo ultimo film, Las Brujas de Zugarramurdi, che si apre con un Gesù Cristo diciamo non convenzionale, un rapinatore travestito da figlio di Dio. Tu hai avuto un’educazione cattolica: qual è il tuo rapporto con la religione?
«Beh sì, c’è un tipo diverso di Dio nel mio film precedente. Sono un cattolico e all’università ho studiato filosofia e religione: non posso farne a meno, credo che sia parte di me. Sono legato alla fede, anche nei miei film sono spesso presenti preti e riferimenti alla religione: sono ossessionato dalle persone che pregano. In questo cortometraggio all’inizio sembra di vedere un film d’azione ma poi si capisce che si sta parlando di tutt’altro: questo per me è divertente, ovvero parlare di una cosa tramite mezzi inaspettati. Io odio la convenzione nel cinema: mi piace mescolare i generi. Nel mio corto c’è azione, commedia e alla fine si parla di Dio: amo questo tipo di cinema».
A questo proposito hai dichiarato di essere un “barman”: come mai ami così tanto mescolare i generi? E come riesci a fare la tua magia?
«Sì lo dico sempre: fare film è un gioco, ma è un gioco serio. Amo giocare in modo serio quando realizzo i miei film e amo mischiare i generi: il mio scopo è scatenare una reazione nella mente del pubblico. Nel corto, visto che è così breve, il cambiamento improvviso si percepisce ancora di più. Amo spiazzare lo spettatore con cambiamenti velocissimi e inaspettati. Sono molto soddisfatto del corto e amo il film nella sua interezza: sono orgoglioso di aver fatto parte di questo progetto. Il film ha un suo ritmo, che cambia con il cambiare dello stile e di argomento: credo che sia intenso, profondo e allo stesso tempo divertente».
Nel tuo corto l’uomo anziano che sta per morire dice: «Io non sono quello che sogno ma quello che faccio»: puoi approfondire questa idea?
«Non è una mia idea ma di Kant: è una cosa che Immanuel Kant ha detto molto tempo fa ma è sempre vera. Tutti cercano di sembrare diversi da quello che sono ma noi siamo diversi dai nostri sogni: anche io vorrei essere John Ford o George Lucas ma non lo sono. Per esempio: quando mi chiedono quali sono i più grandi registi vorrei dire il mio nome insieme a quello di Anthony Mann, George Cukor e Luis Buñuel ma non è vero, è un sogno. Noi siamo quello che facciamo ora: questo è il grande problema della vita. Ma è bene saperlo: in questo modo si è sempre pronti a cambiare”.
Tu sei sempre molto diretto e quasi spietato nell’esprimere le tue idee nei tuoi film: è difficile essere così onesti e liberi in paesi come la Spagna o l’Italia in cui la religione e le convenzioni sociali sono ancora così forti?
«Per me è fondamentale: secondo me avere fede non vuol dire semplicemente credere. Io sono credente e mi interrogo in continuazione: far parte di una religione vuol dire cercare continuamente di combatterla e di rinnegarla accorgendosi così che si crede nonostante tutto. Per me questa battaglia contro la religione è la vera religione: posso dire di essere un cattolico perché ci penso continuamente, non credo che chi segue tutti i dogmi ciecamente sia un vero religioso. La religione è un modo per dare una risposta al rapporto dell’uomo con la natura e con la realtà».
Durante la proiezione con il pubblico il tuo corto è stato quello più applaudito: sei contento di come ha reagito la sala?
«Certo, ma ogni tipo di film scatena una reazione diversa nel pubblico. Per esempio quando si vede un film più riflessivo non ci si alza sulla poltrona. Dipende».
In passato hai detto che l’amore è spesso un atto di egoismo mosso dallo spirito di sopravvivenza: anche l’amore per Dio è della stessa natura per te?
«Nei miei due film precedenti c’era un triangolo tra l’amore, l’orrore e l’ironia: se tu combini questi tre aspetti della vita in modo appropriato puoi essere felice. Per essere felice devi cercare di evitare l’orrore e amare le persone, combinando il tutto con dell’ironia: ma è una cosa quasi impossibile. Nel mondo reale bisogna scegliere: nei miei film c’è questa differente combinazione. In Las Brujas ci sono orrore e ironia, in Balada orrore e amore. Credo che l’amore sia amore sempre, in qualsiasi forma e sì, forse anche l’amore per Dio è una forma di egoismo, forse quella più grande. Da sempre l’uomo cerca di dare una risposta alla domanda più importante: perché esistiamo? E credere in Dio risponde a questa risposta. Credo che amare Dio e amare l’umanità siano varie facce della stessa medaglia con soggetti differenti: ma quando si fa sesso tutto si complica. È molto difficile fare sesso con Dio: solo santa Teresa ci è riuscita».
Parliamo di un tipo diverso di religione: qui a Venezia hai presentato anche il tuo documentario su Messi. Che rapporto hai con il calcio e pensi davvero che Lionel Messi sia una divinità?
«È vero: il calcio è una forma di religione. Credo che i calciatori siano i santi della nostra epoca e la gente vuole credere ai santi. È strano ma è la verità. I sentimenti nei loro confronti sono assoluti: la gente o ama o odia Messi così come Cristiano Ronaldo, non ci può essere neutralità, il calcio è una religione ortodossa, quasi talebana. Ma io non sono un fan del calcio: ho dovuto fare molte ricerche per il film e facendo le interviste per il documentario ho appreso di più sul calcio. È stato divertente».
Sei contento di essere tornato a Venezia con ben due film dopo la vittoria del 2010 con Balada triste de trompeta?
«Credo che Venezia sia il posto migliore per presentare un film: è stato il primo festival di cinema della storia e ora è il miglior festival per quanto mi riguarda in termini di visibilità. Lo preferisco a tutti gli altri. Forse perché non sono a Cannes però! Preferisco comunque Venezia perché la città è bellissima».
Nel 2010 Quentin Tarantino era a Venezia alla proiezione del tuo film e fu il promotore di una lunga standing ovation in tuo onore: vi siete conosciuti?
«Sì lui è molto entusiasta, l’ho conosciuto e siamo diventati amici. È una persona davvero brillante, mi piace molto: fa film meravigliosi e ammiro il suo lavoro. Siamo molto diversi: lui vuole intrattenere il pubblico in modo divertente e amo questa cosa, anche io ho lo stesso obiettivo, ma mettiamo in pratica questo scopo in maniera differente. Quando al cinema vuoi per forza dire qualcosa alla fine il film respinge: io non voglio “dire” qualcosa, voglio chiacchierare e avere un dialogo, non voglio imporre alle persone le mie idee. Bisogna prima di tutto intrattenere e magari riuscire anche a dire qualcosa».
Tu scrivi i tuoi film e lo fai in maniera brillante: preferisci scrivere o dirigere?
«Mi diverto sempre: amo pensare al film, scriverlo, dirigerlo… Ogni volta mi diverto e soffro tantissimo allo stesso tempo. Ogni volta che lavoro a un film è sempre il migliore e il peggiore giorno della mia vita. Il momento in cui si cerca di salvare il film e non impazzire è il montaggio, forse la parte meno sconvolgente del lavoro. Ma mi diverto anche lì. È un processo affascinante: la prima parte, quella di ideazione e scrittura è un sogno, le riprese sono una guerra e il montaggio è il momento del raccolto».
Hai un profilo Instragram che segui con passione: cosa ti piace di questo mezzo di comunicazione?
«Mi diverte molto: amo postare immagini di cose che mi colpiscono ogni giorno. Amo anche Twitter ma il problema è che lì è una lotta continua: gli utenti di Twitter sono molto aggressivi».
Hai qualche nuovo progetto in cantiere?
«Sto scrivendo un nuovo film: il titolo è Don’t stop the music. È una commedia».
Ti piacerebbe fare una serie televisiva?
«Ci sto pensando e ho già un plot: vorrei fare una serie tv horror. Avrebbe per protagonista un prete che vive in una città spagnola».
Quindi ami la tv? Quali serie segui?
«Credo che Breaking Bad sia la cosa migliore capitata negli ultimi decenni nel mondo dell’intrattenimento: è incredibile, la adoro».
Pubblicato su XL.
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