giovedì 31 gennaio 2008

P.S. I love you

Richard LaGravenese, sceneggiatore di “La leggenda del re pescatore” e“I ponti di Madison County”, torna a parlare d’amore e morte da regista.


Immaginate di essere una giovane donna con tanti sogni nel cassetto, speranze per il futuro e con un marito perfetto: bello, simpatico, paziente tanto da sopportare vostra madre, capace di suonare la chitarra mentre vi ammalia con un voce roca e profonda, con una faccia tosta tale da farvi lo spogliarello prima di andare a dormire. Praticamente un sogno. Adesso pensate a come stareste se quest’ uomo fantastico, l’amore della vostra vita, fosse stroncato prematuramente da un tumore al cervello. Questo è quello che accade a Holly (il doppio premio Oscar Hilary Swank): il suo adorato marito irlandese Gerry (Gerard Butler, il Leonida di “300”) muore a soli trentacinque anni lasciandola sola e nella più totale disperazione. A nulla servono gli sforzi della madre Patricia (Kathy Bates) e delle amiche Denise (Lisa Kudrow, la Phoebe di “Friends”) e Sharon (Gina Gershon) per consolare la neo-vedova, fino a quando, in occasione del suo trentesimo compleanno, ad Holly viene consegnata una torta e un nastro, in cui Gerry spiega che per non farla sentire sola le farà recapitare delle lettere. Ovviamente tutte termineranno con il “P.S. I love you” del titolo. Le lettere di Gerry e il viaggio in Irlanda, che le ha organizzato prima di morire, saranno il rimedio per il dolore di Holly: la sproneranno ad andare avanti e a rifarsi una vita.


Richard LaGravenese porta sullo schermo il racconto della scrittrice Cecilia Ahern e crea una pellicola dolce-amara: il tema della morte, sempre in primo piano, viene smorzato dai toni da commedia e il risultato è un mix di divertimento e riflessione che rappresenta in modo molto realistico tutti gli stati d’animo che si susseguono nel processo di elaborazione del lutto di una persona cara.
Bravissimi i protagonisti: Hilary Swank, che finalmente si cimenta in un ruolo leggero dopo tanti film drammatici, e Gerard Butler, che può finalmente dar prova delle sue ottime doti d’attore brillante e riproporre quelle di cantante con cui aveva già conquistato il pubblico nel musical “Il Fantasma dell’Opera”. Una coppia molto affiatata sullo schermo, che ha saputo rendere con estrema spontaneità e realismo la situazione di molte giovani coppie con problemi economici, ma tanto amore da darsi. Fantastica anche, nel ruolo di Denise, Lisa Kudrow - lei di risate se ne intende - che regala le battute più divertenti del film. Strepitoso poi il dialogo madre-figlia tra le due fuoriclasse, nonché premi Oscar, Hilary Swank e Kathy Bates: sono loro a dare il momento di maggior intensità emotiva alla pellicola e commuovono il pubblico in un crescendo di bravura interpretativa.
L’unica nota debole del film è proprio la regia: se la sceneggiatura è buona ed anche il finale sorprende perché non è scontato come ci si potrebbe aspettare, la regia invece è banale, spesso si limita a riprendere i protagonisti e non esalta certi momenti che avrebbero potuto essere molto più efficaci.
In sostanza comunque il film è divertente, godibile, con un ottimo cast e, per i più sensibili, con lacrimuccia in agguato.
Perfetto per San Valentino.

La citazione:
"- Dove sei stato fino ad esso?
- Con tutte donne sbagliate!"

Voto:

Uscita italiana: 1 febbraio 2008

Pubblicato su Meltin' Pot.

Never Apologize

Malcom McDowell racconta il suo amico e maestro Lindsay Anderson.


Quanti di voi sanno chi è Lindsay Anderson?
Secondo Malcom McDowell, il leggendario Alex di “Arancia Meccanica”, in pochi lo ricordano e per questo ha voluto omaggiare il suo mentore e grande amico con un film presentato lo scorso anno al Festival di Cannes.
Lindsay Anderson è stato uno dei fondatori del movimento “Free Cinema”, nato alla fine degli anni cinquanta, che collaborava spesso con il circolo degli “Angry Young Men” di John Osborne, Harold Pinter e Doris Lessing. Il loro scopo era contestare l’establishment inglese, il cinema del dopoguerra e puntare l’attenzione sulle classi popolari.
Lindsay nato a Bangalore, figlio di un militare scozzese, fin da molto giovene mostrò la sua natura ribelle e la voglia di esprimersi: nel corso della sua carriera è stato regista di sei film, critico cinematografico, autore e regista teatrale, scrittore ed ha pubblicato un libro su John Ford “About John Ford” ,il suo regista di culto, secondo McDowell “il più bel libro di un regista su un regista”.
McDowell conobbe Lindsay alla fine degli anni sessanta, quando il regista lo scelse come protagonista del film “If…”: un successo in Gran Bretagna, premiato con la Palma d’Oro a Cannes e l’inizio di una grande amicizia.


Nel film-documentario “Never Apologize" Mcdowell racconta vari aneddoti del suo rapporto lavorativo e d’amicizia con il regista e legge alcune parti del diario che Lindsay scrisse dal 1942 al 1992. Sulla scena ci sono solo lui, un leggio con una lampada, un tavolo con sopra la bandiera inglese e sullo sfondo una foto di Lindsay a cinque anni e una dell’attore e del regista insieme.
Detto così potrebbe sembrare un prodotto sterile e noioso, invece la grande presenza scenica di McDowell, la sua voce ipnotica, l’intensità dell’emozione nel ricordare l’amico e i pensieri suggestivi di Lindsay coinvolgono lo spettatore come se fosse a teatro: si ride, ci si commuove, si riflette. A scandire i ricordi di McDowell ci sono foto e spezzoni di film.
Il tutto è aiutato dalla regia dinamica di Mike Kaplan, che ha usato cinque telecamere per dare alla rappresentazione un aspetto meno statico.
Un film, che è in realtà un one-man-show, assolutamente imperdibile per gli appassionati di cinema: McDowell, infatti, racconta il suo primo provino, i retroscena dei film girati con Lindsay, i rapporti con i vari attori con cui ha lavorato - come Bette Davis, Rachel Roberts, Richard Harris, Alan Bates- e tante altre chicche su personaggi come Steven Spielberg, John Ford e persino Lady Diana.
Un racconto su come “art is sometimes a happy accident” (l’arte a volte è un incidente felice).

La citazione: "Art is sometimes a happy accident"

Voto: ♥♥

Pubblicato su Meltin' Pot.

Conferenza stampa di Never Apologize

Incontro con il leggendario attore inglese Malcom McDowell.

Foto di Valentina Ariete

E’ diventato un pezzo di storia del cinema e una vera e propria leggenda impersonando Alex De Large nel film di Stanley Kubrick “Arancia meccanica”, ma Malcom McDowell non è solo quel personaggio, è un grande attore e un uomo simpaticissimo.
A Roma, al Palazzo delle Esposizioni, in occasione della proiezione del film “Never Apologize”, l’attore di Liverpool si è concesso alla stampa generosamente, allegramente e per un’ora intera.
Ecco le risposte, spesso very british, che ha dato alle domande della stampa.

Perché ha voluto realizzare un film su Lindsay Anderson?
MM: Perché amavo l’uomo. Volevo fare uno spettacolo su di lui nel 2004, in occasione dei dieci anni dalla sua scomparsa, ed avevo sei settimane per presentarlo al Festival di Edimburgo. Avevo il suo diario, ho scelto i pezzi ed è stato facile perché scriveva bene, era un grande scrittore. Ho voluto farlo perché nessuno si ricordava chi era. Mi ci sono voluti cinque anni per convincere la Paramount a fare il dvd. Li ho convinti ricordando quanti film importanti aveva fatto e quanti premi aveva vinto. Era un uomo straordinario, ho sempre amato stragli vicino, anche nei momenti in cui era furioso. Volevo raccontare la straordinaria influenza che ha avuto su di me: mi ha insegnato tutto quello che so sulla recitazione. Mi diceva:”Rendi tutto semplice”. Era un uomo colto: era stato ad Oxford, sapeva tutto sul teatro greco, scriveva le sceneggiature in maniera semplice
e si concentrava tantissimo sulla storia più che sui dialoghi.

In quegli anni c’era una rivoluzione culturale in Inghilterra, c’erano i Beatles, lei è anche di Liverpool, come ha vissuto quel periodo?
MM: Si i Beatles li vidi parecchie volte, loro cominciarono la rivoluzione contro l’establishment inglese. Anche Lindsay era un rivoluzionario, un anarchico. Anche se una volta gli dissi:”Se la regina ti offrisse il titolo di Sir che faresti?” e lui:”Lo accetterei” e io:”Ma come? Non sei un dannato anarchico?” e mi disse:”Non sempre”.

Nel film quando ha interpretato John Ford gli ha dato una voce solenne, come mai?
MM: Non l’ho mai sentito parlare, ma l’ho reso come immagino che parlasse.

Perché ha raccontato l’ultimo incontro tra Ford e Lindsay?
MM:Perché dovevo concludere il racconto e il modo migliore era parlare della morte. Ford stava per morire quando Lindsay andò da lui. E’ una scena molto vivida, commovente. E’ uno scritto molto bello. Anche il luogo dove morì Lindsay,un lago, aveva qualcosa di molto poetico, e ovviamente non era in Inghilterra.

E quando sul set di “Oh Lucky Man!” le ha dato 35 volte la sceneggiatura in testa?
MM: Fa parte dell’arte. Anche se poi usammo il terzo ciak…


E del suo lavoro con Kubrick? Cosa ne pensava Lindsay?
MM: Mi mandò un telegramma:”Ho visto Arancia Meccanica. Stop”. Quando gli feci leggere la sceneggiatura mi disse:”O mio dio, meno male che non devo fare questa roba!”. Ma mi diede dei consigli su come recitare nel film di Kubrick, mi disse di far ridere il personaggio di Alex, come in una scena di “If…” in cui aggredivo un uomo. In realtà mi ha diretto lui in “Arancia Meccanica”.

Lindsay faceva dei film molto moderni, forse spesso non capiti perché troppo avanti, come mai?
MM: Perché era un grande artista, come Van Gogh, precorreva i tempi. E i suoi film, come tutti i grandi capolavori, sono apprezzati veramente solo dopo molto tempo. Non era un regista “naturalista”, voleva fare le cose sempre “bigger than life”, teneva moltissimo alla sceneggiatura e fu molto influenzato dallo stile di Bunuel.

Cosa accomuna Lindsay e Kubrick?
MM: Erano entrambi registi straordinari. Stanley era molto diverso, non si interesseva della gente in particolare, vedeva più in ampio. Era più distaccato. Lindsay è stato il mio migliore amico per tutta la vita, con Stanley dopo il film non ho più parlato.

Quando ha deciso di diventare un attore?
MM: C’è sempre una ragazza di mezzo.

Visto che ha recitato in Heroes , pernsa che i telefilm oggi siano ad un lievello artistico superiore rispetto ai film?
MM: Secondo te? Io sono un attore professionista, quindi interpreto qualsiasi ruolo, ma a voi piace davvero questa roba? Io non ci ho capito nulla! Per fortuna il mio personaggio è morto, ma i produttori della serie mi hanno detto:”A Heroes nessuno muore mai veramente” quindi non si sa mai.

E di Rob Zombie con cui ha lavorato in Halloween cosa pensa?
MM: Sembra Charles Manson! Ma è un ottimo regista. Per quanto riguarda il film è quello che è, a me non piacciono molto gli horror.

Pubblicato su Meltin' Pot.

Scusa ma ti chiamo amore

Dopo più di dieci anni da “Classe mista III A” Federico Moccia torna a dirigere un film.



Alex (Raoul Bova), 37 anni, pubblicitario, è stato appena lasciato dalla sua fidanzata, Elena (Veronica Logan), a cui aveva chiesto di sposarlo.
Niki (l’esordiente Michela Quattrociocche), 17 anni, adolescente in cerca dell’amore, passa tutto il tempo con le sue amiche che si fanno chiamare “le Onde”.
Una precedenza non rispettata e le loro vite si incrociano, o sarebbe meglio dire si scontrano. Fin dal momento dell’incidente i due si piacciono, ma dovranno portare avanti la loro storia d’amore tra mille difficoltà, a cominciare dalla grande differenza d’età e dagli ex che si rifanno vivi.
Moccia porta sullo schermo il suo fortunato romanzo sulla scia del successo di “Tre metri sopra il cielo” e “Ho voglia di te” e il risultato è il solito film adolescenziale sdolcinato e irrealistico, filone che negli ultimi anni ha enorme successo in Italia.
Tutto suona falso: possibile che nei racconti di Moccia le persone si incontrino solo facendo incidenti stradali? Com’è possibile che i personaggi frequentino posti di lusso, abitino in attici favolosi, siano ricchi ma sembrino non lavorare mai? E soprattutto perché le ragazze rappresentate in queste storie sembrano non avere altri interessi oltre ad un’idea dell’amore infantile e banale: possibile che non abbiano progetti per il futuro, delle passioni, una veduta più ampia della vita? Questi film e questi romanzi ci hanno abituato ad un’idea dei giovani limitata e anche offensiva per tutti quei ragazzi che non sono figli di papà e basta, ma che si impegnano, studiano, hanno sogni da realizzare e vivono le loro relazioni in maniera più consapevole e sincera. Quante ragazze si possono identificare davvero nel personaggio insopportabile di Niki? Una ragazza viziata, prepotente, abituata a comandare a bacchetta gli altri, che parla con una vocina stridula aprendo in maniera ridicola le vocali e gesticolando a più non posso: fin dai primi minuti ci si domanda come faccia a sopportarla il personaggio dell’uomo adulto che nella realtà l’avrebbe liquidata
dopo cinque minuti.


La regia, scontata, da spot pubblicitario, di Moccia si limita ad inquadrare i protagonisti, in più c’è anche il tocco kitch: a scandire i momenti del film ci sono la voce narrante di Luca Ward - una delle più belle del cinema italiano, ma qui assolutamente sprecata - e frasi d’amore prese da vari autori (tra cui Shakespeare, Balzac, Whitman), che compaiono sull’immagine con tanto di animazioni. I Baci Perugina non avrebbero saputo fare di meglio. L’unica nota positiva del film è Raoul Bova sia per la sua bellezza, sempre piacevole da ammirare, che per l’impegno che ci mette: è migliorato molto, ma dispiace vedere che dopo la svolta impegnata che aveva dato alla sua carriera, con film come “La finestra di fronte” di Ozpetek, sia tornato ai tempi e ai livelli di “Piccolo grande amore”.
Un film che piacerà alle fedelissime lettrici di Moccia, alle fan di Raoul Bova e alle ragazzine.

La citazione: "Io per la roscetta me pijerei trent'anni de galera. Ce stanno tutti!"

Voto:

Uscita italiana:
25 gennaio 2008

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Conferenza stampa di Scusa ma ti chiamo amore

Al liceo Giulio Cesare di Roma Moccia, Raoul Bova e tutto il cast del film hanno risposto alle domande della stampa.

Foto di Valentina Ariete

Al Liceo Giulio Cesare di Roma il 21 gennaio è stata una giornata particolare: tutto il cast del film “Scusa ma ti chiamo amore” era presente nell’Aula Magna per parlare dell’ultimo sforzo creativo di Federico Moccia. Si può immaginare il caos che c’era per i corridoi della scuola, soprattutto quando è arrivato Raoul Bova! Oltre agli attori, c’erano anche la produttrice Rita Rusich e Carlo Rossella, presidente di Medusa. Ecco come hanno risposto alle domande della stampa.

Foto di Valentina Ariete

Com’è stato portare sullo schermo un romanzo scritto da lei?
Federico Moccia:Quando scrivi le parole sono un po’ come la tua vita, puoi raccontare le emozioni, l’amore. La regia invece è più difficile da rendere perché non puoi mettere tutto quello che c’è nel libro in un film. Ma a me interessava raccontare i giovani, che troppo spesso sono catalogati, la bellezza di poterli raccontare così come sono. Inoltre era difficile fare questo film perché ci sono molti personaggi. Spero che il film sia valido rispetto al libro.

Visto che lei è diventato un punto di riferimento per i giovanissimi, perché nel film non si accenna mai all’uso dei preservativi?
Federico Moccia: Non ve ne siete accorti ma ce l’avevano! Nel libro questo passaggio c’è ed è sottolineato. Nel film sarebbe stato difficile parlare di questi argomenti.

Quali sono i suoi film d’amore preferiti?
Federico Moccia:
Ce ne sono tanti, per esempio “La signora della porta accanto”, tutti i film di Lelouch e Truffaut, “Tutta la vita”.

Foto di Valentina Ariete

Raoul perché hai accettato questo ruolo e come ti senti a fare quello con 20 anni di più?
Raoul Bova: La differenza d’età secondo me oggi non è un grosso problema perché i diciassettenni sono più maturi e i quarantenni più giovani, l’amore è privo di confini. Qui poi si racconta una storia molto bella, romantica, un sogno, una favola. Mi ha entusiasmato molto il libro che è un best-seller e ai giovani piace e il film rafforza il libro. Io poi finalmente ho trovato una vena più leggera, volevo fare una commedia dopo tanti ruoli drammatici. Devo ringraziare il mio agente, Rita e Federico, anche se mi ha fatto un provino a tradimento perché ha detto che ci saremmo incontrati e basta, che mi hanno permesso di fare una commedia.

Foto di Valentina Ariete

Michela tu come ti senti al tuo debutto?Avevi studiato per il ruolo e in futuro vorresti continuare a fare l’attrice?
Michela Quatrrociocche: Io sono molto timida, ma fare il film è stata una bella esperienza anche se a me non è mai capitato di avere una storia del genere. Ho studiato dizione e vorrei fare l’attrice.

Foto di Valentina Ariete

Federico secondo te è cambiato qualcosa nel mondo giovanile?
Federico Moccia: Io pensavo di scioccare con questa storia, invece sul blog del film molti hanno raccontato storie vere simili a questa. A me è piaciuto raccontare non solo i giovani, ma anche il mondo dei quarantenni di oggi.

Come mai le citazioni nel film?
Fedrico Moccia: E’ bello usare riflessioni che appartengono ad altri ma che esprimono le stesse emozioni che provi tu. E’ bello pensare che altri hanno provato i tuoi stessi sentimenti e queste frasi sono state scelte apposta per cadenzare i momenti romantici del film.

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Foto di Valentina Ariete


Gli sporchi, brutti e cattivi dell’anno: i peggiori film del 2007

Non sono state tutte rose e capolavori quest’anno: ecco la top five dei peggiori film dell’anno.


5. Harry Potter e l’Ordine della Fenice




Il peggior Harry Potter in versione cinematografica della saga: regia assente, fotografia troppo tetra, sceneggiatura fatta a tirar via, cast quasi disorientato e soprattutto tanta, troppa noia!
Speriamo che i prossimi capitoli tornino al brio di un tempo.











4. Intrigo a Berlino



Purtroppo in questo film c’è quella che è la miglior attrice in circolazione e cioè Cate Blanchett, nonostante questo non si può non bocciare su tutta la linea questo polpettone scialbo e inutile: Soderbergh ama i grandi classici americani, lo abbiamo capito, ma dovrebbe concentrarsi più sul suo linguaggio cinematografico invece di fare esercizi di stile che annoiano e deludono.








3. Seta


Il testo originale “Seta” di Alessandro Baricco già di per sé è fragile, il film però lo è ancora di più: lentissimo, freddo, distaccato, con una colonna sonora sempre uguale e usata in maniera ossessiva tanto da portare quasi alla paranoia. Dispiace vedere Keira Knightly sprecata in un ruolo insignificante e ripetitivo.
Peccato perché è una delle poche produzioni internazionali italiane e non hanno saputo sfruttare l’occasione.







2. The number 23

Qui si tocca uno dei livelli più bassi della storia del cinema: uno pseudo triller psicologico, schizofrenico, allucinato, non si sa bene come definirlo! Più che una sceneggiatura quella di “The Number 23” sembra il prodotto di una scimmia ubriaca che abbia scritto le scene a caso e le abbia fatte montare a un cieco. Incomprensibile, confuso, con un Jim Carrey che a volte sembra dire:”Ma che ci faccio qui!” e il pubblico se lo domanda con lui.
Da evitare come la peste.








1. Invasion




Ed ecco il peggior film in assoluto del 2007: un remake di cui non si sentiva proprio l’esigenza e che è diventato involontariamente un film comico! Tra le chicche: gli alieni ci rendono apatici vomitandoci addosso e nel caffè (bleah!), James Bond-Daniel Craig fa lo scienziato (con quella faccia?!), Nicole Kidman si è talmente siliconata che non riesce più a fare un’espressione che sia una (e questa è la cosa veramente più triste). In più la storia non ha senso logico, la conclusione è frettolosa e stiracchiata, la regia pessima, la fotografia anche, la musica non si ricorda nemmeno… Della serie:”Ma perché?!”.

Siete state avvertiti: se poi siete masochisti guardatelo pure.





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Mostra “Stanley Kubrick”: Eyes wide enjoyed!

Al Palazzo delle Esposizioni una mostra celebra il grande regista americano.


Considerato uno dei migliori registi della storia del cinema, e da molti il più grande in assoluto, Stanley Kubrick con la sua opera ha rivoluzionato l’idea di cinema: con lui niente è intrattenimento e basta, niente è bell’ immagine senz’ anima, niente è “solo un film”. Il suo linguaggio simbolico, quasi metafisico, ci permette di arrivare fino all’ultimo strato del nostro subconscio e di capire cose che non pensavamo fossero possibili. Questo grande lavoro intellettuale è accompagnato da un insuperabile gusto artistico che ci ha regalato alcune delle immagini più belle del cinema: basti pensare all’osso impugnato dal cavernicolo che diventa un’astronave in “2001 Odissea nello spazio”, alle magnifiche scene girate con luce naturale in “Barry Lyndon” o ai primi piani delle maschere veneziane di “Eyes Wide Shut”. Kubrick poi non si limitava a girare e a scrivere la sceneggiatura, ma effettuava egli stesso il montaggio: insomma un genio a tutto tondo.
Per celebrare il suo cinema è stata realizzata una mostra al Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale a cura di Hans- Peter Reichmann, prodotta dal Deutsches Filmmuseum e dal Deutsches Architektur Museum di Francoforte in collaborazione con Christiane Kubrick e Jan Harlan del “The Stanley Kubrick Estate” che ha fornito materiale visibile per la prima volta al grande pubblico.
Un lavoro davvero sorprendente: l’intero primo piano è dedicato ai film del regista americano. Si comincia con una trovata davvero geniale: dodici schermi riproducono ininterrottamente i film di Kubrick. Si passa poi in una sala dove sono esposti oggetti davvero speciali: la scacchiera del regista (Kubrick era anche un gran giocatore), la sua prima macchina fotografica con cui entrò nel mondo delle immagini, il Leone d’Oro alla carriera e le foto che realizzò per la rivista “Look”.
Dopo questo primo assaggio già di forte impatto emotivo per un appassionato di cinema, comincia la mostra vera e propria: una sala per ogni film.
Si inizia con “Il bacio dell’assassino” con cui Kubrick già dimostrò di essere tutt’altro che uno dei tanti: memorabili l’inquadratura fatta attraverso l’acquario e la scena della lotta nel magazzino pieno di manichini.
Poi è la volta di “Rapina a mano armata” e qui ci sono dei pezzi che fanno commuovere come la sceneggiatura originale con gli appunti del regista. Si continua con “Orizzonti di gloria” primo grande capolavoro di Kubrick in cui il regista affronta i temi a lui più cari come la guerra, la follia umana, l’ingiustizia della sopraffazione degli innocenti, e qui a guardare i poster originali si ha un tuffo al cuore.
Passiamo velocemente per la sala dedicata a “Spartacus”, unico film che Kubrick ha dichiarato di aver fatto per soldi e su cui non ha avuto la completa libertà artistica, e arriviamo a quella dedicata a “Lolita” dove ci si diverte a guardare i servizi fotografici di Sue Lyon, la conturbante protagonista della pellicola, e la corrispondenza tra Kubrick e Nabokov.
Arriviamo a “Il Dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba”: fantastica la riproduzione della bomba sganciata dal soldato-cowboy e il modellino della sala ovale del presidente degli Stati Uniti.
A questo punto dovrebbe esserci la parte della mostra dedicata a “2001: Odissea nello spazio”, invece si passa subito ad “Arancia Meccanica”: dopo il primo momento di sconforto, si va in estasi mistica per la leggendaria bombetta indossata da Malcom McDowell, alias Alex il drugo, e per le statue del Milk Bar. Chi non è un amante del cinema e soprattutto un adoratore di Kubrick non può capire l’emozione che suscita la visione di questi oggetti quasi sacri!

Poi c’è un interessante approfondimento sulla passione che il regista aveva per Napoleone: l’intera collezione di libri sull’imperatore francese che Kubrick ha raccolto durante tutta la vita, l’imponente progetto del film “Napoleon” (purtroppo mai realizzato) e, una vera chicca, la lettera di risposta di Audrey Hepburn a Kubrick che l’aveva scelta per il ruolo di Paolina Bonaparte. Visto che si era già in aria di settecento, passiamo ai superbi costumi disegnati da Milena Canonero per “Barry Lyndon” (la costumista italiana fu premiata con l’Oscar) e la memoria ritorna con emozione a quella fotografia irripetibile, a quella luce soffusa che dona un’atmosfera magica alla pellicola.
Tocca poi a “Shining” e qui il cinefilo ha un’altra illuminazione cosmica ammirando l’ascia usata da Jack Nicolson nell’ormai storica scena dell’abbattimento della porta.
Per “Full Metal Jacket” ci sono vari documentari delle riprese del film, il fucile usato dal protagonista e come nelle altre sale molti poster, foto e curiosità.
Arriviamo così a “Eyes Wide Shut”: qui c’è l’intera collezione delle stupende maschere veneziane usate nella pellicola, oggetti che emanano mistero e inquietudine anche non indossate dagli attori.
Dopo questa sala il fan di Kubrick ha finalmente il modo di gioire fino in fondo: l’ultima parte della mostra è dedicata a “2001: Odissea nello spazio”, il capolavoro assoluto del regista americano. Si tira un sospiro di sollievo (non se l’erano dimenticato!) e si arriva direttamente al Nirvana con il costume da cavernicolo, il casco dell’astronauta Bowman, la riproduzione di Hal 9000, il feto stellare originale e la riproduzione del monolito. In più c’è anche un marchingegno che permette agli spettatori di vedersi proiettati nella scenografia del film.
A questo punto la mostra è finita ma c’è il tempo di emozionarsi ancora un po’: custodita sotto una vetrina c’è l’originale sedia da regista di Stanley Kubrick.
Adesso il cinefilo è proprio saturato dalla felicità!
Insomma la mostra è veramente ben pensata, ricca, esauriente, decisamente degna del sommo regista.
Se non l’avete ancora vista sbrigatevi: avete tempo fino al sei gennaio 2008.

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Prison Break

La nuova serie di culto made in USA si nasconde dietro i tatuaggi di Mr. Scofield


Gli appassionati di telefilm pensavano che “I segreti di Twin Peaks” fosse il massimo. Poi arrivò “Buffy” e i vampiri tornarono di moda. Poi “I Soprano”, “Six Feet Under” e “24” sembravano aver battuto tutti. Arrivò “Nip/Tuck” e per un attimo si pensò che un telefilm più cult non ci potesse essere. Giunse infine “Lost”e con questo veramente tutti hanno detto:"Non ci può essere niente di più geniale!". E invece si sbagliavano. Nel 2005 è comparsa sugli schermi americani una serie veramente, veramente, veramente stracult: “Prison Break”. La trama in breve è questa: Michael Scofield, brillante ingegnere di Chicago, fa una rapina, viene arrestato e rinchiuso nel carcere di massima sicurezza Fox River. Perché mai un uomo dalla vita apparentemente perfetta si fa sbattere in galera con i peggiori delinquenti? In realtà Michael è lì perché nella prigione c’è suo fratello Lincoln, condannato a morte per un delitto che non ha commesso, e lui si è fatto tatuare su tutto il corpo la piantina del carcere con lo scopo di farlo evadere. A complicare la situazione ci sono il compagno di cella di Michael, Sucre, il secondino Bellick, il direttore del carcere Pope, la bella dottoressa Sarah e i detenuti T-Bag, Abbruzzi e Franklin. Detta così la storia sembra abbastanza banale, se non fosse che il protagonista della serie è un vero genio e sono già leggendarie le trovate che inventa per evadere dal carcere: miscele chimiche che sciolgono grate, buchi apparentemente insignificanti che fanno crollare muri perché realizzati da una mente matematica e tante altre invenzioni così complicate e brillanti che non si possono raccontare, vanno viste e letteralmente vissute.


Questa serie si distingue da tutte le altre perché ogni minimo dettaglio è importante ai fini della storia e ogni evento è perfettamente consequenziale al precedente: non c’è nulla di lasciato al caso, di superficiale o di così assurdo che non avrà mai una spiegazione. Il ritmo della storia è sempre a livelli altissimi e non c’è un singolo istante in cui non si pensi:"Oh mio Dio che è successo!". I personaggi poi sono memorabili: finalmente non ci sono i buoni e i cattivi, le vittime e gli aguzzini, ognuno ha luci e ombre, ha qualcosa da nascondere ed è sopraffatto dagli eventi proprio come nella vita vera. Dopo le prime puntate non potrete più farne a meno: è comprovato che questo telefilm dà dipendenza totale. Inoltre, a differenza di altri titoli che già dalla seconda serie cominciano a perdere mordente, nella seconda stagione “Prison Break” riesce a superarsi: i fratelli, riusciti ad evadere, devono compiere una fuga disperata per non farsi arrestare di nuovo e a questo punto viene introdotto un personaggio leggendario, l’agente del FBI, Alexander Mahone la vera nemesi di Michael, l’unico altrettanto intelligente e in grado di tenergli testa. La storia qui si fa ancora più complicata perché il complotto organizzato contro Lincoln si scopre esser architettato da pesci molto, molto grossi. Ma non si può dire di più, altrimenti si rovina la sorpresa. In America è appena cominciata la terza stagione che sicuramente, viste le premesse, sarà ancora migliore delle precedenti. Il bello di “Prison Break” è proprio questo: gli sceneggiatori sono così geniali che quando pensi non possano inventarsi più nulla, succede sempre qualcosa che ti lascia senza parole. Scordatevi quindi chirurghi corrotti, supereroi scontati e isole misteriose che non si sa se avranno mai una spiegazione plausibile e lasciatevi conquistare dalla logica cristallina, dal ritmo sincopato e dal fascino dei personaggi di “Prison Break”, la nuova serie di culto degli anni duemila.

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American Gangster: i duellanti della droga

Con “American Gangster” Ridley Scott prova a confezionare un capolavoro del genere gangster-movie, ma ci riesce solo a metà.



New York 1968: il Vietnam ha reso eroinomani quasi tutti i soldati americani.
Quartiere di Harlem: un giovane autista sta per diventare il più potente narcotrafficante d’America.
New Jersey: un poliziotto che vuole diventare avvocato è l’unico che non accetta mazzette dai signori della droga.
Le loro vite sono destinate a incrociarsi in un duello all’ultima soffiata.
Denzel Washington è Frank Lucas, uomo di colore che grazie alla sua forza di volontà, al suo rigore quasi monacale e alla sua cura per i dettagli riesce a mettersi a capo di un’organizzazione criminale perfetta: eliminando gli intermediari, compra da solo la droga a Bangkok e, con l’aiuto di fratelli e cugini, la rivende in America pura il doppio e cara la metà rispetto a quella delle gang mafiose italo-americane.
E’ l’inizio di un enorme impero grazie al quale comprerà una casa regale a sua madre, sposerà una bellissima ragazza portoricana e otterrà il rispetto di tutta la comunità di Harlem tanto da diventare più importante di celebrità del calibro di Mohammed Ali.
Russell Crowe, invece, è Richie Roberts, l’unico poliziotto così onesto da trovare un milione di dollari non segnati e di consegnarli alla polizia nonostante debba pagare gli alimenti alla moglie e la sua casa sia una vera e propria topaia. Così facendo però, si guadagna la possibilità di diventare il capo della squadra speciale narcotici.
Le vite dei due non si incontrano per lungo tempo grazie alla capacità di Lucas di passare inosservato -sua la frase:”L’uomo più appariscente nella stanza è l’uomo più debole nella stanza”- ma per colpa di un capriccio dettato dall’amore il boss si farà notare un'unica volta che risulterà essere fatale: uno scatto fotografico lo catapulterà al centro delle indagini di Roberts e sarà l’inizio della fine.
Ridley Scott confeziona un film ben fatto - anche se nella regia avrebbe potuto dare di più - avvincente nonostante la lunga durata (due ore e quaranta minuti) e molto ben curato nella fotografia, ma purtroppo il tutto sa di già visto. Certe scene, la colonna sonora, perfino certe frasi fanno pensare ai film di Scorsese, ai duelli dei cowboy di Sergio Leone , alle sparatorie del “Padrino” ed anche al suo stupendo film d’esordio “I duellanti”. Insomma, la pellicola risente di tutta la precedente filmografia dedicata ai gangster-movie e purtroppo non vi aggiunge nulla di nuovo.



La cosa veramente eccezionale del film è la superba interpretazione di Denzel Washington: riesce a dare a Frank lo sguardo lucido e allo stesso tempo folle, si muove dapprima con calma e incedere felino e un momento dopo si scatena in violenze terribili, sorride ma con gli occhi minaccia, insomma un’interpretazione da Oscar (sarebbe il terzo)! Tanto è ben riuscito il suo personaggio che alla fine è automatico fare il tifo per lui anche se è il bad guy della storia: ha talmente tanta classe, un fascino che viene dal suo passato di bambino dall’infanzia violata che cerca un riscatto sociale, che non si può non preferirlo al modesto poliziotto che si dà un tono grazie alla sua incorruttibilità ma che poi tradisce la moglie, frequenta persone poco raccomandabili e non riesce a mangiare nulla in cui non ci siano patatine fritte.
Russell Crowe invece, nonostante sia notoriamente un attore di prestigio (anche lui premio Oscar), appare spesso affaticato e appesantito sia nel fisico che nella recitazione.
Da antologia il duello verbale finale tra i due protagonisti: il boss e il detective sono giunti allo scontro finale, il secondo tiene in pugno il primo, si guardano, si annusano e nonostante siano nelle opposte barricate in fondo si piacciono. La sintesi del film è tutta in questo dialogo: il male a volte non è così diverso dal bene, chi può dire se un uomo è morale o no, e soprattutto le nostre azioni ci rendono veramente migliori di altri o siamo tutti travolti dalle circostanze?

La citazione: "L'uomo più appariscente nella stanza è l'uomo più debole nella stanza"


Voto: ♥♥1/2

Uscita italiana:
18 gennaio 2008

Pubblicato su Meltin' Pot.

Across The Universe: spettacolo spettacolare!

Il musical basato sulle canzoni dei Beatles vi travolgerà con le sue immagini visionarie e i suoi colori impazziti.



Vi è mai capitato di provare emozioni talmente forti da non trovare le parole per esprimerle se non con una canzone che amate particolarmente?
Pensate come sarebbe bello e liberatorio: cantare a squarciagola i versi del vostro cantante preferito e magari accennare anche qualche passo di danza.
Purtroppo nel mondo reale questo non è possibile o comunque non è saggio: rischiereste di farvi portare via con una camicia di forza! Ma nel mondo magico del cinema e soprattutto dei musical questa è la regola: i personaggi cominciano a cantare rapiti dalla forza dei loro sentimenti.
Anche in “Across the universe” accade questo, solo che le canzoni non sono semplici canzoni, ma sono trentatrè fra i più bei pezzi dei leggendari Beatles.
I testi dei Fab Four fanno parlare i personaggi tra cui ci sono Jude (Jim Sturgess) operaio di Liverpool che, negli anni sessanta, parte per l’America per conoscere suo padre e incontra Max (Joe Anderson), studente universitario più incline alle baldorie che allo studio, che ha una sorella, Lucy (Evan Rachel Wood, famosa per il film “Thirteen” e per essere la fidanzata di Marilyn Manson), di cui Jude si innamora perdutamente.
I tre ragazzi diventano inseparabili e decidono di partire per New York in cerca di fortuna. Qui incontrano Sadie (Dana Fuchs), una cantante dalla personalità prorompente, Jojo (Martin Luther McCoy), il chitarrista della band di Sadie, e Prudence (T.V. Carpio), una cheerleader scappata di casa.



Il gruppo vive amori, gelosie, feste a Manhattan, esperienze di droghe di ogni tipo sullo sfondo delle lotte contro la guerra del Vietnam.
La storia in realtà è un pretesto per rendere omaggio alle canzoni dei Beatles che vengono interpretate ed esaltate da immagini spettacolari dai colori psichedelici, da frenetici montaggi paralleli e mirabolanti movimenti di macchina che ci catapultano in una dimensione onirica e fantastica. Assolutamente geniali alcuni pezzi come “Strawberry Fields Forever” in cui fragole appese al muro sembrano cuori insanguinati che prendono la forma delle bombe lanciate in Vietnam.
Straordinari i giovani protagonisti che cantano convinti e coinvolgenti e superbi anche i camei di grandi personaggi della musica: Joe Cocker è un barbone che nella metropolitana canta “Come Together” e Bono degli U2 è un guru new age che canta “I Am The Warlus”. La promettente regista Julie Taymor ha imparato bene la lezione da Baz Luhrmann (il geniale regista di Moulin Rouge) e confeziona un’opera dall’atmosfera bohemienne a anticonformista che vi farà provare un’esperienza quasi catartica: addirittura la signora accanto a me ha cantato per tutto il film! Inoltre la pellicola è adatta a tutti: nostalgici dei Beatles e degli anni sessanta, appassionati di musical, cinefili e addirittura a Daniele Luttazzi che era presente in sala.
Se andate a vederlo ricordatevi che “All You Need Is Love”!

La citazione: "All you need is love!"


Voto: ♥♥♥♥

Pubblicato su Meltin' Pot.

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