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sabato 4 ottobre 2014

Alexandra Daddario: “Il mio nudo? Funzionale. E Woody Harrelson un mito”

Abbiamo incontrato Alexandra Daddario, la donna che fa perdere la testa a Woody Harrelson in “True Detective”, che ci ha parlato della sua esperienza sul set, della funzionalità della nudità nella serie e di come la HBO le abbia dato la possibilità di lavorare con uno dei suoi miti d’infanzia 




È una semidea dagli occhi di ghiaccio nella saga di Percy Jackson e con le sue forme giunoniche ha conquistato il pubblico maschile di mezzo mondo, ma è alla tv che Alexandra Daddario deve, fino a ora, gran parte del suo successo: il primo ruolo della carriera è stato quello di Laurie Lewis nella soap “La valle dei pini”, poi ha partecipato a diverse serie di successo come “I Soprano”, “Law and Order”, “Damages”, “White Collar” e “New Girl”, per arrivare infine a “True Detective, serie evento che in America ha conquistato pubblico e critica. 

In “True Detective”, mini serie in otto episodi scritta da Nic Pizzolatto e diretta da Cary Fukunaga, l’attrice è Lisa, la donna che fa perdere la testa a Martin Hart, il detective interpretato da Woody Harrelson, uomo sposato e padre di due figlie, che instaura con lei una relazione. Il rapporto tra Martin e Lisa crea problemi non solo al matrimonio del detective, ma è causa di scontri anche con Rust Cole, il collega di Martin interpretato da Matthew McConaughey

“True Detective” è in onda da venerdì 3 ottobre su Sky Atlantic, canale 110 di Sky, alle ore 21:10, con due episodi a sera. 




Hai girato “Burying the ex” subito dopo la fine delle riprese di “True Detective”: com’è stato passare dal set della serie HBO a quello di Joe Dante? 

Sì, ho girato il film prima che “True Detective” andasse in onda ma dopo la fine delle riprese della serie. In un certo senso è stata una boccata d’aria fresca: nonostante ci siano gli zombi l’atmosfera è molto meno dark che in “True Detective” e questa volta ho potuto tenermi i vestiti addosso, cosa non male per una volta. Mi sono divertita tantissimo a fare questo film, amo fare commedie e mi sento felice ogni volta che lavoro a un progetto che può darmi qualcosa anche dal punto di vista umano: Joe, Anton e Ashley sono stati dei magnifici compagni di viaggio, sono persone fantastiche e mi è dispiaciuto che tutto sia finito così in fretta, avrei girato con loro per mesi. Anche girare “True Detective” è stata un’esperienza fantastica, ma si è rivelato un viaggio emotivo molto più intenso, come è giusto che sia dato il tipo di storia. 


A proposito di nudità: il nudo, soprattutto in serie firmate HBO come “Game of Thrones” e, appunto, “True Detective”, fa ancora tanto scalpore. Tu che opinione hai a riguardo? 

Per quanto riguarda Lisa, il personaggio che ho interpretato in “True Detective”, ho sentito da subito che era vero e quindi ho percepito la nudità come necessaria per il ruolo: è una ragazza molto giovane che instaura una relazione con un uomo sposato, che in apparenza sembra integerrimo ma in realtà è pieno di difetti. La scena in cui si vede Lisa nuda sopra quest’uomo, che dovrebbe essere il simbolo dell’integrità, fa immediatamente cambiare la prospettiva su quel personaggio: quindi direi che in questo caso la nudità non solo è essenziale, ma anche funzionale al racconto. L’unico appunto che potrei fare è che dovrebbero esserci più nudi maschili in televisione, così che anche le donne possano avere qualcosa di stuzzicante da guardare. 

In questo film e in “True Detective” tu sei “l’altra donna”: che differenza c’è tra i due personaggi? 

Il mio ruolo nella serie è abbastanza diverso: il personaggio di Lisa è più folle, più intenso e pieno di contraddizioni, cosa che è divertente da interpretare, mentre Olivia ha meno difetti, certo tutti ne hanno, ma a differenza di Lisa non va di proposito a intromettersi nel matrimonio di altre due persone, non sa in cosa si sta cacciando, crede di aver incontrato un ragazzo che non ha già un’altra relazione, quindi il contesto è decisamente diverso. 

In “True Detective” il tuo personaggio interagisce soprattutto con quello di Woody Harrelson: come è stato lavorare con lui? 

Woody Harrelson per me è una leggenda, è un attore a cui ho guardato con ammirazione per tutta la vita, quindi per me avere la possibilità di lavorare con lui è stato straordinario: è stata una cosa incredibile poter lavorare con qualcuno che mi ha ispirato a diventare un’attrice quando ero piccola. 

Il tuo prossimo film in uscita è “San Andreas”, film d’azione ambientato in California dopo un incredibile terremoto: cosa dobbiamo aspettarci? 

È un grande disaster movie: credo che sia molto divertente, sul set mi sono trovata molto bene con tutti i miei colleghi. Spesso con questo tipo di film la sceneggiatura è sacrificata in favore della computer grafica, è un paradosso: più soldi a disposizione ci sono e meno la storia ne giova; nel caso di questo film credo invece che ci sia stata la volontà di rendere reali tutti i personaggi e fare in modo che il pubblico si affezioni a loro. 

Pensi che tornerai di nuovo a fare televisione? 

Sì, mi piacerebbe tornare a lavorare per la televisione: sono contenta del fatto che il pregiudizio che c’era nei confronti della tv ormai non esista più e che la televisione sia cambiata così tanto in poco tempo. Ora ci sono tantissimi canali, l’offerta è pazzesca ed è positivo sia per attori e sceneggiatori, che in questo modo hanno più opportunità, sia per il pubblico, che ora può godere di prodotti molto diversi tra loro, spesso di qualità eccellente. In un certo senso televisione e cinema si stanno fondendo e ormai non c’è più tanta distinzione tra i due mezzi: se un prodotto è valido il pubblico se ne accorge e lo guarda, a prescindere che sia trasmesso su internet, in tv o su un grande schermo. 

C’è qualche serie che ami da spettatrice? 

Mi piace molto “House of Cards”, ovviamente amo “True Detective”, lo dico sinceramente, e sono ossessionata da una commedia che si chiama “Nathan for you”, che non so se in Italia è conosciuta, ma sta diventando molto popolare in America: la consiglio.


Pubblicato su TvZap.

mercoledì 10 settembre 2014

VENEZIA 71: “IL GIOVANE FAVOLOSO”

Mario Martone porta al cinema l’opera e la vita di Giacomo Leopardi, il più grande poeta e filosofo italiano dell’800, interpretato da uno straordinario Elio Germano 



Dite la verità: di Leopardi avete un vago e fumoso ricordo, di quando, all’ultimo anno di liceo, la vostra professoressa di italiano vi spiegò, in maniera forse non proprio chiarissima, qualche poesia triste di cui non siete riusciti a cogliere precisamente il senso. Per fortuna non avete mai dovuto portare alla maturità La Ginestra, poesia lunghissima e incomprensibile, che troneggiava sul vostro libro di testo ma che per fortuna l’insegnante ha saltato, preferendo dedicare un numero maggiore di ore al più rassicurante e simpatico Manzoni. Perché in fondo dai, si sa, Leopardi era un pessimista, odiava tutto e tutti perché era brutto e malato, e la sua gobba avrà anche portato fortuna a chi la toccava, ma a lui ha dato solo sofferenza: si capisce quindi perché abbia passato tutta la sua vita chino sui libri a parlare di cose malinconiche e difficili. 

Ogni volta che qualcuno dice questo, un pezzo di bellezza nel mondo muore e la fiducia nell’umanità è sempre meno possibile: doveva saperlo bene Leopardi, intellettuale di levatura straordinaria e uomo dall’intelligenza superiore, talmente sensibile e avanti per i suoi tempi da aver gettato le basi per il dialogo moderno sul rapporto tra l’uomo e la natura e tra fede e scienza, che, confinato nella piccola e provinciale Recanati, ha dovuto scontrarsi fin da subito con l’ottusità della gente, sempre spaventata e diffidente nei confronti di chi è diverso, sia nel fisico che nel pensiero. Un’ostilità che nel caso di Leopardi non proviene solo da parte delle menti più semplici: anche gli intellettuali dell’epoca guardavano con diffidenza a quell’uomo così strano eppure così geniale, una figura per loro icomprensibile di cui provavano paura e soprattutto invidia, come spesso succede in un paese dove tutti si sentono grandi mattatori su un palcoscenico. 

Mario Martone deve essere ben consapevole dei luoghi comuni che circondano Leopardi e della scarsa conoscenza della sua opera e, da artista sensibile quale è, ha trovato la miglior chiave di lettura possibile per rendere giustizia a una figura che merita di essere approfondita e amata: distaccandosi dal semplice biopic, che correva il rischio di essere troppo didascalico, il regita ha messo in scena la vita di Leopardi seguendo sì la sua biografia, alternandola però alla lettura di alcune delle sue opere più importanti accompagnate da immagini e visioni che sembrano scaturite direttamente dalla mente del poeta, come se sullo schermo fosse illustrato il momento della creazione della poesia. Una soluzione suggestiva e romantica, che permette di squarciare il velo che separa il Leopardi poeta da Giacomo, l’uomo solo e incompreso. Rendendo il film uno Zibaldone in immagini, Martone ci fa avvicinare al lato umano di un giovane il cui enorme intelletto era confinato in un corpo e in un mondo troppo piccoli e sgraziati per contenerlo, un uomo i cui sentimenti erano talmente profondi e struggenti da fare quasi paura per la loro bellezza e lucidità. 

A incarnare la figura di Leopardi è un Elio Germano finalmente misurato e ispirato, che sembra aver interiorizzato il dramma umano del poeta: la sua prova attoriale, aiutata da un lavoro sul corpo incredibile, a cominciare dalla postura e dalla camminata, è uno dei punti di forza del film, insieme alla colonna sonora, che unisce pezzi classici a musiche moderne, dando così la sensazione che non si stia parlando di un personaggio polveroso e confinato in una precisa epoca, ma di un uomo il cui vissuto ha valore universale. Oltre a rendere omaggio a una grande figura, Martone ha infatti reso il film un atto d’amore verso la bellezza e la cultura, sempre più bistrattata e mortificata, soprattutto in Italia. La bellezza non è un valore da mercificare e involgarire, ma un qualcosa che può stupire e far sognare, come una lucciola nella notte o un cielo stellato: la bellezza è un valore irrinunciabile perché, data la caducità delle vita umana, rapportati all’immensità dell’universo gli uomini non sono altro che granelli di sabbia dispersi nel vento. Abbandonati e soli in un infinito che non comprenderemo mai, soltanto la bellezza di “un’odorata ginestra” può salvarci.

Elio Germano


La citazione: 
"Giacomo: La ragione umana non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo, perché contiene il vero.
Paolina: E in cosa consiste il vero?
Giacomo: Consiste nel dubbio."

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥♥

Uscita italiana: 16 ottobre 2014


Titolo originale: Il giovane favoloso
Regia: Mario Martone
Anno: 2014
Cast: Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Anna Mouglalis, Valerio Binasco, Isabella Ragonese, Federica De Cola, Iaia Forte, Raffaella Giordano, Paolo Graziosi
Colore: colore
Durata:  137 minuti
Genere: biografico
Sceneggiatura: Mario Martone, Ippolita di Majo
Fotografia: Renato Berta
Montaggi0: Jacopo Quadri
Musica: Sascha Ring
Paese di produzione: Italia
Casa di produzione: Palomar, Rai Cinema
Distribuzione italiana: 01 Distribution




Pubblicato su XL.

giovedì 4 settembre 2014

VENEZIA 71: PETER BOGDANOVICH, ABBIAMO TUTTI BISOGNO DI UN PO’ DI MAGIA

Il regista torna al cinema dopo più di dieci anni con “She’s funny that way”, commedia degli equivoci, presentata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. 




Il celebre canto dell’Inferno di Dante Alighieri in cui viene raccontata la storia di Paolo e Francesca è uno dei passi più celebri e commoventi della letteratura mondiale, così come la morte di Desdemona per mano di Otello nell’omonima tragedia di Shakespeare: storie immortali che, ancora oggi, dopo secoli, fanno sognare ma che, se uno volesse cinicamente ridurle ai fatti, si potrebbero entrambe sintetizzare in tre parole con “storie di corna”. Una visione che leva ogni poesia all’opera: e che cos’è il cinema se non la messa in scena di una storia in modo personale e magico? Perché rinunciare alla magia del cinema? «Perché rovinare una bella storia con i fatti?». 

Se lo chiede nel suo ultimo film, She’s funny that way, presentato fuori concorso alla 71esima Mostra Cinematografica di Venezia, Peter Bogdanovich, veterano del grande schermo e da sempre nostalgico della Hollywood dei tempi d’oro, quella anni ’50 e ’60, in cui uomini e donne erano eleganti, irraggiungibili e sapevano stringere tra le labbra una sigaretta come nessun altro. Assente dagli schermi dal 2001, Bogdanovich mette in scena una classica commedia degli equivoci in cui una squillo dall’animo romantico, Izzy, la sempre più in ascesa Imogen Poots, può cambiare vita grazie alla generosità di Arnold, lo stralunato e malinconico Owen Wilson, regista teatrale con il debole per le prostitute da redimere, cui dona 30mila dollari per cambiare vita. Decisa a diventare un’attrice, Izzy si presenta al provino per un importante spettacolo a Broadway e scopre che il regista della commedia è proprio il suo benefattore: da qui comincia una serie di gag, scambi di persona e battute fulminanti che vedono coinvolte anche la psicanalista della ragazza, Jane, una irresistibile Jennifer Aniston, e il co-protagonista dello spettacolo, Seth, il sornione Rhys Ifans

A metà tra Colazione da Tiffany di Blake Edwards, i film di Ernest Lubitsch e il capolavoro di Bogdanovich Ma papà ti manda da sola?, She’s funny that way è un tuffo nel passato della commedia brillante americana, una dichiarazione d’amore alla settima arte e un’iniezione di buonumore tonificante come non si vedeva da tempo. Cinefilo incallito e amante della settima arte, Bogdanovich non si limita a copiare se stesso e i capi saldi del genere, ma cita i suoi film preferiti omaggiandoli e spandendo a piene mani la magia del cinema che ama nella sua pellicola: una dote che solo i cineasti più appassionati e raffinati posseggono e che, come si vede nel finale, è un testimone che l’autore passa simbolicamente a un altro noto regista bulimico di cinema e storie. 

Per la gioia dei più romantici, persino la storia dietro il film è magica: lontano dal set per anni, se si escludono alcuni film per la tv e la partecipazione come attore alla serie tv I Soprano, Bogdanovich ha potuto nuovamente prendere in mano una telecamera grazie a due illustri colleghi: Wes Anderson e Noah Baumbach, che hanno finanziato il film, ambientato in una New York piena di elettricità e romanticismo, proprio come i suoi protagonisti. 

E allora perché rinunciare alla magia che può donare un film proiettato in una sala buia? Prima che cinecomics, saghe infinite e interessi commerciali fagocitino per sempre il fascino delle risate, godiamoci questo cinema fatto di eleganza e volti, perché, come dice Izzy, tutti abbiamo bisogno di un po’ di magia.

Imogen Poots e Owen Wilson


La citazione: "Squirrel to the nuts or nuts to the squirrel?"

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥

Uscita italiana: 


Titolo originale: She's funny that way
Regia: Peter Bogdanovich
Anno: 2014
Cast: Imogen Poots, Owen Wilson, Jennifer Aniston, Kathryn Hahn, Rhys Ifans, Will Forte
Colore: colore
Durata:  93 minuti
Genere: commedia
Sceneggiatura: Peter Bogdanovich, Louise Stratten
Fotografia: Yaron Orbach
Montaggi0: Nick Moore, Pax Wasserman
Musica: Ed Shearmur
Paese di produzione: USA
Produttori: Wes Anderson, Noah Baumbach
Distribuzione italiana: 


Pubblicato su XL.

VENEZIA 71: “BOXTROLLS”, LA SCATOLA CHE NON FA IL TROLL

Dopo “Coraline e la porta magica” e “ParaNorman”, lo studio di animazione in stop-motion Laika Entertainment porta al cinema il romanzo di Alan Snow “Here be monsters”




Sono finiti i tempi in cui a farla da padroni nel mondo dell’animazione erano i soliti nomi noti: Disney, Pixar, Dreamworks e Ghibli hanno ora un temibile rivale che, arrivato al terzo lungometraggio, conferma di essere una delle realtà più interessanti nel panorama cinematografico contemporaneo. La giovane Laika Entertainment, fondata da Will Vinton e da Phil Knight, co-fondatore della Nike, nel 2005, è infatti il nuovo studio d’animazione da tenere d’occhio: dopo i primi due lungometraggi, Coraline e la porta magica e ParaNorman, entrambi nominati all’Oscar come miglior film d’animazione, lo studio presenta ora, fuori concorso, Boxtrolls – Le scatole magiche, lungometraggio ispirato al romanzo di Alan Snow Here be monsters!, inedito in Italia, alla 71esima Mostra D’Arte Cinematografica di Venezia.

Nella bizzarra città di Pontecacio, l’èlite ha accesso ai formaggi più prelibati, vera ossessione degli abitanti del luogo, che vivono, respirano e bramano formaggio, e diritto a indossare le tube bianche, copricapi che rendono possibile l’ammissione nella stanza dei formaggi, consiglio in cui i potenti degustano i prodotti più raffinati dell’arte casearia. Escluso dal circolo dei privilegiati, l’ambizioso Archibald Arraffa, possessore di una tuba rossa, cerca in tutti i modi di conquistare una tuba bianca: per dimostrare al consiglio di essere degno, Archibald promette di sterminare tutti i Boxtrolls, troll che vivono nei sotterranei della città e indossano scatole. 

Accusati di essere ladri di formaggio e di bambini, i troll sono visti come una minaccia, mentre in realtà sono creature sì orripilanti, ma estremamente pacifiche e ingegnose: costruttori e riparatori, i boxtrolls hanno allevato il piccolo Uovo, bambino chiamato così per via della sua scatola, ogni boxtroll prende infatti il nome dal suo contenitore. Per riuscire a fronteggiare Arraffa, Uovo e i Boxtrolls devono fare affidamento su Winnie, la figlia di Lord Gorgon-Zole, l’uomo più potente della città. 

L’animazione con la computer grafica negli ultimi 20 anni ha fatto passi da gigante, ma ancora oggi non riesce a trasmettere il calore e la magia del disegno a mano o dei personaggi animati con la stop-motion: Boxtrolls, fulgido esempio di animazione fatta con set e personaggi “fisici”, è allo stesso tempo moderno e nostalgico, grazie al suo stile vintage che rende la pellicola affascinante e coinvolgente, e a una cura spasmodica per il dettaglio. I personaggi e i set di “Boxtrolls” sono vere e proprie opere d’arte, rese vive a mano da animatori che, si percepisce, amano e credono davvero nella bellezza della stop-motion. Al design affascinante si unisce una scrittura brillante, che richiama la grande letteratura di Dickens, i personaggi stralunati di Tim Burton e perfino riferimenti ai Monty Python, ricca di elementi gotici e horror, in cui vengono inseriti temi come l’accettazione del diverso, il rapporto tra genitori e figli e l’importanza di essere se stessi, a prescindere dalle etichette che la società ci appiccica. 

Nella versione originale del film a dare voce ai personaggi sono alcuni dei migliori attori del panorama inglese e americano: il perfido Arraffa è Ben Kingsley, Lord Gorgon-Zole è Jared Harris (Lane Pryce in Mad Men), Isaac Hempstead Wright, Bran in Game of Thrones, è Uovo, e Elle Fanning è Winnie; arricchiscono il cast Simon Pegg, Nick Frost, Toni Collette e Tracy Morgan.





La citazione: "Dove sono i fiumi di sangue e le montagne di ossa? Mi erano stati promessi fiumi di sangue!"

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥♥

Uscita italiana: 2 ottobre 2014


Titolo italiano: Boxtrolls - Le scatole magiche
Titolo originale: The Boxtrolls
Regia: Graham Annable, Anthony Stacchi
Anno: 2014
Cast: (voci originali) Isaac Hempstead Wright, Elle Fanning, Simon Pegg, Toni Collette, Ben Kingsley, Nick Frost, Jared Harris, Tracy Morgan, Richard Ayoade
Colore: colore, 3D
Durata:  96 minuti
Genere: animazione
Sceneggiatura: Irena Brignull, Adam Pava 
Montaggi0: Edie Bleiman
Musica: Dario Marianelli
Paese di produzione: USA
Casa di produzione: Universal Pictures, Laika Entertainment
Distribuzione italiana: Universal Pictures





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mercoledì 3 settembre 2014

VENEZIA 71: ALEX DE LA IGLESIA: “È MOLTO DIFFICILE FARE SESSO CON DIO: SOLO SANTA TERESA CI È RIUSCITA”

La nostra intervista allo scatenato regista spagnolo è uno dei nove autori del progetto collettivo “Words with Gods”, pellicola sul rapporto tra l’uomo e Dio, presentata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. 




Un killer uccide un uomo di fronte alla sua donna. Colpito a sua volta, fugge nella notte: per salvarsi sale sul taxi di uno strampalato tassista che, scambiandolo per un prete, lo supplica di andare a confessare suo padre, prossimo alla morte, ateo impenitente. 
Comincia come un action movie il corto La confessione, uno dei nove segmenti del progetto collettivo Words with God”, presentato fuori concorso alla Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia. Autore del cortometraggio è Alex de la Iglesia, regista spagnolo di fede cattolica chiamato dall’amico e collega Guillermo Arriaga, ideatore del progetto, a prendere parte a queste conversazioni con il divino. Nei pochi minuti a disposizione de La Iglesia condensa tutto il suo cinema: commistione di generi, ritmo frenetico, ironia dissacrante sono i suoi tratti distintivi, così come la scrittura brillante; da più di venti anni autore di culto del cinema spagnolo e non solo – suo grandissimo estimatore è il bulimico Quentin Tarantino -, de La Iglesia è ormai una figura di riferimento per gli appassionati di horror e pulp. 

Arrivato a Venezia insieme ad Arriaga e agli altri registi coinvolti, l’indiana Mira Nair, lo jugoslavo Emir Kusturica, il giapponese Hideo Nakata, l’israeliano Amos Gitai, l’argentino Hector Babenco, l’iraniano Bahman Ghobadi e l’australiano Warwick Thornton, de La Iglesia, di ritorno al Lido dopo la vittoria, nel 2010, del Leone D’Argento alla regia per il film Balada triste de trompeta (in Italia Ballata dell’odio e dell’amore), ci ha parlato del suo rapporto con Dio, dell’idea che si è fatto dell’amore, del suo cinema, dei social network e del desiderio di realizzare une serie tv. 

"La confessione" 


E’ curioso vederti parlare di religione dopo il tuo ultimo film, Las Brujas de Zugarramurdi, che si apre con un Gesù Cristo diciamo non convenzionale, un rapinatore travestito da figlio di Dio. Tu hai avuto un’educazione cattolica: qual è il tuo rapporto con la religione? 

«Beh sì, c’è un tipo diverso di Dio nel mio film precedente. Sono un cattolico e all’università ho studiato filosofia e religione: non posso farne a meno, credo che sia parte di me. Sono legato alla fede, anche nei miei film sono spesso presenti preti e riferimenti alla religione: sono ossessionato dalle persone che pregano. In questo cortometraggio all’inizio sembra di vedere un film d’azione ma poi si capisce che si sta parlando di tutt’altro: questo per me è divertente, ovvero parlare di una cosa tramite mezzi inaspettati. Io odio la convenzione nel cinema: mi piace mescolare i generi. Nel mio corto c’è azione, commedia e alla fine si parla di Dio: amo questo tipo di cinema». 

A questo proposito hai dichiarato di essere un “barman”: come mai ami così tanto mescolare i generi? E come riesci a fare la tua magia? 

«Sì lo dico sempre: fare film è un gioco, ma è un gioco serio. Amo giocare in modo serio quando realizzo i miei film e amo mischiare i generi: il mio scopo è scatenare una reazione nella mente del pubblico. Nel corto, visto che è così breve, il cambiamento improvviso si percepisce ancora di più. Amo spiazzare lo spettatore con cambiamenti velocissimi e inaspettati. Sono molto soddisfatto del corto e amo il film nella sua interezza: sono orgoglioso di aver fatto parte di questo progetto. Il film ha un suo ritmo, che cambia con il cambiare dello stile e di argomento: credo che sia intenso, profondo e allo stesso tempo divertente». 

Nel tuo corto l’uomo anziano che sta per morire dice: «Io non sono quello che sogno ma quello che faccio»: puoi approfondire questa idea? 

«Non è una mia idea ma di Kant: è una cosa che Immanuel Kant ha detto molto tempo fa ma è sempre vera. Tutti cercano di sembrare diversi da quello che sono ma noi siamo diversi dai nostri sogni: anche io vorrei essere John Ford o George Lucas ma non lo sono. Per esempio: quando mi chiedono quali sono i più grandi registi vorrei dire il mio nome insieme a quello di Anthony Mann, George Cukor e Luis Buñuel ma non è vero, è un sogno. Noi siamo quello che facciamo ora: questo è il grande problema della vita. Ma è bene saperlo: in questo modo si è sempre pronti a cambiare”. 

Tu sei sempre molto diretto e quasi spietato nell’esprimere le tue idee nei tuoi film: è difficile essere così onesti e liberi in paesi come la Spagna o l’Italia in cui la religione e le convenzioni sociali sono ancora così forti? 

«Per me è fondamentale: secondo me avere fede non vuol dire semplicemente credere. Io sono credente e mi interrogo in continuazione: far parte di una religione vuol dire cercare continuamente di combatterla e di rinnegarla accorgendosi così che si crede nonostante tutto. Per me questa battaglia contro la religione è la vera religione: posso dire di essere un cattolico perché ci penso continuamente, non credo che chi segue tutti i dogmi ciecamente sia un vero religioso. La religione è un modo per dare una risposta al rapporto dell’uomo con la natura e con la realtà». 

Durante la proiezione con il pubblico il tuo corto è stato quello più applaudito: sei contento di come ha reagito la sala? 

«Certo, ma ogni tipo di film scatena una reazione diversa nel pubblico. Per esempio quando si vede un film più riflessivo non ci si alza sulla poltrona. Dipende». 

In passato hai detto che l’amore è spesso un atto di egoismo mosso dallo spirito di sopravvivenza: anche l’amore per Dio è della stessa natura per te? 

«Nei miei due film precedenti c’era un triangolo tra l’amore, l’orrore e l’ironia: se tu combini questi tre aspetti della vita in modo appropriato puoi essere felice. Per essere felice devi cercare di evitare l’orrore e amare le persone, combinando il tutto con dell’ironia: ma è una cosa quasi impossibile. Nel mondo reale bisogna scegliere: nei miei film c’è questa differente combinazione. In Las Brujas ci sono orrore e ironia, in Balada orrore e amore. Credo che l’amore sia amore sempre, in qualsiasi forma e sì, forse anche l’amore per Dio è una forma di egoismo, forse quella più grande. Da sempre l’uomo cerca di dare una risposta alla domanda più importante: perché esistiamo? E credere in Dio risponde a questa risposta. Credo che amare Dio e amare l’umanità siano varie facce della stessa medaglia con soggetti differenti: ma quando si fa sesso tutto si complica. È molto difficile fare sesso con Dio: solo santa Teresa ci è riuscita». 

Parliamo di un tipo diverso di religione: qui a Venezia hai presentato anche il tuo documentario su Messi. Che rapporto hai con il calcio e pensi davvero che Lionel Messi sia una divinità? 

«È vero: il calcio è una forma di religione. Credo che i calciatori siano i santi della nostra epoca e la gente vuole credere ai santi. È strano ma è la verità. I sentimenti nei loro confronti sono assoluti: la gente o ama o odia Messi così come Cristiano Ronaldo, non ci può essere neutralità, il calcio è una religione ortodossa, quasi talebana. Ma io non sono un fan del calcio: ho dovuto fare molte ricerche per il film e facendo le interviste per il documentario ho appreso di più sul calcio. È stato divertente». 

Sei contento di essere tornato a Venezia con ben due film dopo la vittoria del 2010 con Balada triste de trompeta? 

«Credo che Venezia sia il posto migliore per presentare un film: è stato il primo festival di cinema della storia e ora è il miglior festival per quanto mi riguarda in termini di visibilità. Lo preferisco a tutti gli altri. Forse perché non sono a Cannes però! Preferisco comunque Venezia perché la città è bellissima». 

Nel 2010 Quentin Tarantino era a Venezia alla proiezione del tuo film e fu il promotore di una lunga standing ovation in tuo onore: vi siete conosciuti? 

«Sì lui è molto entusiasta, l’ho conosciuto e siamo diventati amici. È una persona davvero brillante, mi piace molto: fa film meravigliosi e ammiro il suo lavoro. Siamo molto diversi: lui vuole intrattenere il pubblico in modo divertente e amo questa cosa, anche io ho lo stesso obiettivo, ma mettiamo in pratica questo scopo in maniera differente. Quando al cinema vuoi per forza dire qualcosa alla fine il film respinge: io non voglio “dire” qualcosa, voglio chiacchierare e avere un dialogo, non voglio imporre alle persone le mie idee. Bisogna prima di tutto intrattenere e magari riuscire anche a dire qualcosa».

Tu scrivi i tuoi film e lo fai in maniera brillante: preferisci scrivere o dirigere? 

«Mi diverto sempre: amo pensare al film, scriverlo, dirigerlo… Ogni volta mi diverto e soffro tantissimo allo stesso tempo. Ogni volta che lavoro a un film è sempre il migliore e il peggiore giorno della mia vita. Il momento in cui si cerca di salvare il film e non impazzire è il montaggio, forse la parte meno sconvolgente del lavoro. Ma mi diverto anche lì. È un processo affascinante: la prima parte, quella di ideazione e scrittura è un sogno, le riprese sono una guerra e il montaggio è il momento del raccolto». 

Hai un profilo Instragram che segui con passione: cosa ti piace di questo mezzo di comunicazione? 

«Mi diverte molto: amo postare immagini di cose che mi colpiscono ogni giorno. Amo anche Twitter ma il problema è che lì è una lotta continua: gli utenti di Twitter sono molto aggressivi». 

Hai qualche nuovo progetto in cantiere? 

«Sto scrivendo un nuovo film: il titolo è Don’t stop the music. È una commedia». 

Ti piacerebbe fare una serie televisiva? 

«Ci sto pensando e ho già un plot: vorrei fare una serie tv horror. Avrebbe per protagonista un prete che vive in una città spagnola». 

Quindi ami la tv? Quali serie segui? 

«Credo che Breaking Bad sia la cosa migliore capitata negli ultimi decenni nel mondo dell’intrattenimento: è incredibile, la adoro».


Pubblicato su XL.

martedì 2 settembre 2014

Guillermo Arriaga, nove registi per raccontare la religione in "Words with Gods"

Il regista, ospite alla Mostra di Venezia dove ha presentato il suo nuovo lavoro, progetto collettivo a "18 mani" sul rapporto con i diversi credo, racconta: "Ogni religione dovrebbe essere un punto d'incontro, non una giustificazione per la morte o il rifiuto" 




VENEZIA - In passato ha affrontato, come sceneggiatore, le diverse sfumature della morte e dell'incomunicabilità tra le persone nella cosiddetta "trilogia della morte"- il tris di pellicole Amores perros, 21 grammi e Babel -, firmata insieme al collega Alejandro González Iñárritu e ha messo in scena una famiglia distrutta nel suo esordio The Burning Plan, presentato nel 2008 proprio al festival di Venezia: oggi, tornato al Lido per la 71esima Mostra d'Arte Cinematografica, il regista messicano Guillermo Arriaga ha scelto di parlare del suo rapporto con Dio e con la religione nel film collettivo Words with Gods, coinvolgendo nel progetto altri otto colleghi. Presentata fuori concorso, la pellicola coinvolge in tutto nove autori di altrettante nazionalità e religioni, cui è stata data carta bianca per parlare della loro visione del divino: un'impresa difficile e ambiziosa, fortemente voluta da Arriaga, ideatore del progetto. 

Il regista messicano ha scelto personalmente i colleghi: lo spagnolo Alex de la Iglesia, l'indiana Mira Nair, lo jugoslavo Emir Kusturica, il giapponese Hideo Nakata, l'israeliano Amos Gitai, l'argentino Hector Babenco, l'iraniano Bahman Ghobadi e l'australiano Warwick Thornton. Arriaga ha lasciato per sé l'ultimo corto, Il sangue di Dio, dedicato all'ateismo, in cui dal cielo comincia improvvisamente a piovere sangue quando un uomo si uccide dopo aver sentito Dio dirgli del suo desiderio di morire. Un tema certamente complesso e una metafora potente, racchiusi in un progetto cui ha partecipato anche Peter Gabriel, che ha composto la musica per questo corto. Abbiamo discusso del progetto proprio con Arriaga, voce gentile e sguardo cristallino, che ci ha parlato del suo rapporto con la religione e dei suoi progetti futuri. 




Lei è il creatore del progetto: perché ha voluto realizzare un film su Dio? 

"Sono convinto che la religione non possa essere una giustificazione per la morte o il rifiuto: credo piuttosto che dovrebbe essere un punto d'incontro. La morale del nostro film consiste nel dire che è arrivato il momento di conoscerci l'un l'altro davvero. E credo nel fatto che il cinema possa essere una delle forze in grado di portare avanti questo processo". 

Nei suoi film, come Babel, spesso le persone non riescono a comunicare: oggi viviamo un paradosso in cui grazie alla tecnologia riusciamo a essere sempre connessi con chiunque e ovunque ma forse non comunichiamo sul serio. Secondo lei come mai? 

"Siamo informati: ma non comunichiamo davvero. Credo che anzi ci siano sempre più problemi di comunicazione: ed è terribile perché quando ci sono problemi a capirsi si diventa nemici. Per me il cinema può essere un veicolo, magari modesto, ma comunque un mezzo efficace per guardarsi intorno e arricchire la propria mente. Grazie a Words with Gods per esempio ho scoperto che in India le case hanno una stanza dedicata a Dio o che in Giappone hanno otto categorie di sofferenze: è una cosa importante apprendere perché con una maggiore conoscenza si può comunicare meglio". 

Quindi che opinione si è fatto degli ultimi avvenimenti nella striscia di Gaza? Pensa che anche lì ci sia un problema di comunicazione dovuto alla differenza di religione? 

"Credo che debbano fermarsi: devono fermarsi. Dobbiamo tornare alle origini del problema e smettere di focalizzarci ogni volta su chi ha lanciato i razzi per primo: se si continua ad accusare l'una o l'altra parte si andrà avanti all'infinito. Per uscirne davvero deve esserci però la volontà di trovare un accordo da parte di entrambi ed è necessario anche il supporto della comunità mondiale". 

Come ha messo insieme il gruppo di Words with Gods? 

"Ho scelto tutti i registi personalmente: ho una profonda ammirazione per ognuno di loro. Inoltre volevo dei registi che avessero una voce originale, una forza visiva che significasse qualcosa e che fossero ben consapevoli della religione di cui avrebbero parlato: volevo che ognuno di loro fosse immerso in quella determinata cultura". 

Lei ha scelto di parlare dell'ateismo: nel suo corto c'è una metafora molto forte, sembra quasi che il mondo stia per collassare. Cosa voleva dire? 

"Io sono ateo e volevo realizzare qualcosa di ambiguo: volevo che guardando il corto la gente si facesse delle domande, come: Dio esiste? Dio può morire? È solo la visione di un uomo che è impazzito e vuole uccidersi? Volevo essere il più ambiguo possibile e confondere lo spettatore. Non voglio emettere una sentenza sull'argomento: voglio suscitare dei sentimenti e far sorgere delle domande. Credo che l'arte difficilmente possa dare delle risposte ma che invece debba porre domande". 

Generalmente le persone credenti etichettano negativamente gli atei dal punto di vista morale. Lei invece si fa delle domande e si interroga. Come risponderebbe a una critica del genere? 

"Gli atei possono essere estremamente morali, esattamente come tutte le altre persone. L'altro giorno parlavo con una persona religiosa che mi ha detto: 'Tu sei ateo, quindi sei un nichilista' e gli ho chiesto perché pensasse questo. La sua risposta è stata: 'Perché dal tuo punto di vista nessuno ti sta guardando': mi domando perché la conclusione sia questa. Io mi guardo ogni giorno: non ho bisogno di qualcuno che mi giudichi o mi punisca, so cosa è giusto o sbagliato e mi comporto di conseguenza. Desidero essere una brava persona esattamente come gli altri: non vedo perché un ateo debba per forza essere immorale. Un ateo è un umanista: non guarda in alto ma direttamente negli occhi delle persone che ha di fronte". 

Spesso nei suoi film sono messi in scena rapporti difficili tra genitori e figli: come mai la colpiscono così tanto i drammi familiari? 

"Mi affascina la complessità delle relazioni umane: non siamo bianchi o neri, credo che il mondo sia governato dal paradosso e per questo amo personaggi pieni di contraddizioni. Amo il fatto che guardando i miei personaggi la gente possa dire: "Lo detesto ma lo capisco". Inoltre quando scrivo è come se non avessi davvero una mia volontà: è come se una forza esterna mi obbligasse a scrivere quello che vedo nella mia mente". 

Allora crede che ci siano delle forze più grandi dell'uomo? 

"Non devono essere necessariamente forze divine: sono umori che si trovano nell'aria, che derivano dalle esperienze delle altre persone che ti sono intorno. Quello che mi ispira è tutto ciò che arriva dall'esterno: leggendo i notiziari, ascoltando i racconti degli amici. Queste sono le forze esterne a cui mi riferisco". 

Perché nel suo corto è data grande importanza alla natura? 

"Ho usato la metafora della natura perché l'uomo è in cima alla natura e può cambiare il mondo: in un certo senso ha il destino della natura nelle sue mani e quindi deve prendersene cura". 

Ha qualche nuovo progetto in cantiere? 

"Sto finendo un romanzo e ho appena concluso un altro progetto collettivo: si intitola Rio, I Love You, simile al progetto Paris, je t'aime, sono uno dei dieci registi coinvolti". 

Ha salutato il suo collega Iñárritu qui al festival? Ha visto il suo nuovo film Birdman? Pensa che lavorerete ancora insieme in futuro? 

"No. Gli auguro fortuna per il suo film ma non credo che lavoreremo più insieme. Abbiamo divorziato".


Pubblicato su Repubblica.it

Paul Wesley: “Sono geloso di Ian Somerhalder: fare il cattivo è più divertente”

Il protagonista di “The Vampire Diaries” alla Mostra del cinema di Venezia con il film “Before I disappear” nella sezione Giornate degli autori. Al Lido ci ha parlato dei suoi gusti in fatto di serie tv, libri e cinema, del sogno di fare il regista e del rapporto con i colleghi della serie vampiresca 




Jeans scuri, maglietta bianca, occhiali da sole, pelle d’alabastro, capelli tirati su con il gel e bottiglia di birra in mano: se non fosse per la bevanda alcolica, Paul Wesley sembrerebbe uscito direttamente dal set di “The Vampire Diaries, serie della TheCW in cui interpreta il vampiro Stefan Salvatore, personaggio che di solito beve liquidi ad alto tasso di emoglobina. L’attore americano è arrivato al Lido di Venezia dove ha presentato il film “Before I disappear, di cui è anche produttore, in cui interpreta Gideon, personaggio diverso dal ruolo televisivo che l’ha reso celebre ma segnato sempre da un rapporto difficile con la donna amata. Presentato nella sezione Giornate degli autori, il film è diretto da Shawn Christensen, amico d’infanzia di Wesley e vincitore nel 2012 del premio Oscar al miglior cortometraggio per “Curfew, opera da cui è tratta proprio la pellicola proiettata a Venezia.

Subito dopo la proiezione del film (resa più vivace dall’allarme anti incendio, scattato inaspettatamente: “Per un momento ho pensato che i tecnici del suono avesseo azzardato una sperimentazione interessante” ha commentato Wesley), ci ha parlato delle sue passioni, del sogno di fare il regista e del rapporto con i colleghi di “The Vampire Diaries”, in particolare con Ian Somerhalder, che nella serie interpreta suo fratello. 


Sei diventato produttore e sei alla mostra di Venezia, come è accaduto? 

“Shawn (il regista N.d.R.) è un mio caro amico, ci conosciamo da quando avevamo 13-14 anni, abbiamo frequentato corsi di recitazione insieme a New York, l’ho sempre ammirato come persona e come musicista. Quando era in tour con la sua band ha cominciato a scrivere delle scene di una storia e me le ha fatte leggere: ho pensato che fossero scritte in maniera splendida e l’ho incoraggiato a trasformarle in una sceneggiatura. Quando l’ha finita l’ho data al mio agente, perché Shawn non sapeva nulla della parte più pratica del cinema: ha trovato un agente e dieci anni dopo ha vinto un Oscar. Siccome siamo amici sono sempre stato coinvolto nei suoi progetti e quindi adesso abbiamo avuto la possibilità di collaborare: mi ha chiesto di produrre il suo film e sono stato felice di farlo, l’ho incastrato nella mia tabella di marcia e mi sono buttato”. 

Oltre a produrre questo film hai diretto alcune puntate di “The Vampire Diaries”: nel tuo futuro vedi anche una carriera da regista e produttore oltre a quella di attore? 

“Sì, continuerò a fare il regista: tra un paio di mesi dirigerò un nuovo episodio di The Vampire Diaries e con Shawn stiamo lavorando a un altro progetto insieme. Amo recitare, ma è solo una parte del puzzle: quando sei parte di una serie tv per sei anni di fila cominci a sentirti un po’ confinato, ovviamente è un’occasione straordinaria, ma in qualche modo mi sento insoddisfatto e quindi voglio collaborare con persone che possano permettermi di migliorare e Shawn è una di queste”. 

Quando giri “The Vampire Diaries” sei costretto a seguire un certo stile, mentre se potessi dirigere un progetto scelto da te quale pensi che sarebbe il tuo sguardo personale? 

“Dipende dalla sceneggiatura: credo che sia meglio cambiare stile a ogni film. Ci sono ovviamente delle eccezioni: Wes Anderson ha uno stile molto preciso e identificabile, tutti i suoi film sono geometrici, ogni cosa è lineare e al suo posto nei suoi film e quello è uno stile identificabile e brillante. Non so se ho uno stile preciso: so che ci sono alcune cose che mi colpiscono di più. Per esempio quando vedo i film di Woody Allen mi accorgo che gira molte scene lunghe con pochi stacchi di montaggio, mentre gli episodi di The Vampire Diaries sono tutti: scena, stacco, bum, azione, musica, bam… le telecamere si muovono in continuazione, non si possono mai fermare: se le telecamere si fermano siamo finiti! Quello è lo stile di The Vampire Diaries. Altri film invece inquadrano per ore due personaggi e basta: ogni storia ha il suo stile giusto. Bisogna quindi prima trovare la storia e poi trovare il giusto modo di raccontarla”. 

È più facile o difficile lavorare con gli amici? 

“Quando ho fatto il regista sul set di The Vampire Diaries mi complimentavo sempre con tutti: dicevo in continuaione “oh mio dio sei fantastico, sei il migliore”… E non ero falso, non stavo mentendo, sentivo che fare complimenti agli attori e metterli a loro agio era il metodo migliore per ottenere quello che volevo. Quando vedevo qualcosa che non mi piaceva ovviamente lo dicevo apertamente ma mai con tono di rimprovero: secondo me è importante far sentire sicuri gli attori, perché stai chiedendo loro di essere vulnerabili. Certo se qualcuno non ha talento non si può creare: è una cosa che ho imparato presto, non si può trasformare una banana in una mela. Devi capire quello che hai a disposizione e usarlo al meglio: per fortuna gli attori con cui ho lavorato erano tutti talentuosi. Devi farli sentire sicuri soprattutto per mettere a nudo le loro emozioni piuttosto che i loro corpi”. 

Se potessi scegliere un ruolo da interpretare o un film da girare quale sceglieresti? 

“Ho sempre pensato che Luci della città di Charlie Chaplin, che parla di una ragazza cieca che si innamora di un tipo strano, fosse una storia bellissima e mi piacerebbe poterne fare una versione moderna prima o poi”. 

Quali sono i tuoi film preferiti? 

“Ho diversi film che mi hanno scosso e influenzato: “Scene da un matrimonio”, di Ingmar Bergman, mi ha lasciato scosso per diversi giorni, poi i primi film di Scorsese come “Quei bravi ragazzi” e forse il regista che più mi affascina è Stanley Kubrick. Amo inoltre i film di Woody Allen: “Io e Annie”, “Manhattan” e “Hannah e le sue sorelle” potrei guardarli all’infinito”. 

Nessun film sui vampiri? 

“No, non fanno per me”. 

E la tv la guardi? Segui delle serie in particolare? 

“Non guardo molta televisione: fino a qualche anno fa non avevo nemmeno la tv via cavo! Poi ho dovuto comprarla per quando venivano gli amici a casa. Mi piace comunque il fatto che ora si siano diffuse le mini-serie: trovo che fare 22-23 episodi a stagione sia esagerato, non ho tempo per vedere serie così lunghe! Mentre riesco a godermi prodotti da 6-8 episodi e devo dire che anche i film per la tv ora sono a un ottimo livello: sull’aereo per Venezia ho visto “The Normal Heart” e mi è piaciuto molto. Ho visto la prima parte di “True Detective” perché volevo scoprire come mai tutti fossero impazziti e ho visto le prime due stagioni di “Breaking Bad” e “Game of Thrones”". 

Cominci ma poi ti fermi sempre… 

“Sì…non so perché. Riconosco che sia coinvolta una quantità enorme di talento in questi progetti ma per qualche motivo non riesco mai a guardare una serie per intero. Sarà che quando torno a casa esausto per il lavoro mettermi in poltrona a guardare la tv non è il mio primo pensiero. Sono però ossessionato dal mio iPad: sono sempre a leggere notizie, a fare download, a sentire musica su iTunes. Non ho tempo per la tv!”. 

Pensi quindi che il cinema e la televisione diventeranno sempre più una sola cosa? 

“Sì assolutamente: siamo solo all’inizio, ma penso che prima o poi si fonderanno”. 

Interpreti sempre ruoli molto intensi che hanno a che fare con la morte, come in “Before I disappear” e “The Vampire Diaries”, è una scelta oppure ti piacerebbe fare anche qualcosa di più leggero come una commedia? 

“Amo le commedie e credo che le persone più tormentate siano le più divertenti: se qualcuno mi offrisse la possibilità mi piacerebbe molto interpretarne una. Ho preso parte a una commedia anni fa, si intitola “Roll bounce”, in cui ero un campione di skateboard e indossavo canotte luccicanti: quando la gente vede questo film dice “ma davvero quello è Stefan di The Vampire Diaries?!”. Non voglio essere confinato solo in un genere: adorerei fare delle commedie”. 

Quindi sei geloso di Ian Somerhalder che in “The Vampire Diaries” è il vampiro divertente?

“Sì! È stato fortunato, ha avuto il ruolo divertente: è sempre più divertente essere il cattivo! È più facile per un attore: è stancante mostrarsi continuamente vulnerabile e mostrare emozioni come invece fa il mio personaggio”.


Pubblicato su TvZap.
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