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domenica 15 febbraio 2015

1992, la serie su Mani pulite: tra Gomorra e Romanzo Criminale

Presentata in anteprima mondiale al Festival di Berlino, 1992, serie ideata da Stefano Accorsi che racconta, sullo sfondo della Milano degli anni ’90 segnata da Tangentopoli, la vita di sei personaggi che accompagnano lo spettatore attraverso un anno cruciale per l’Italia. In onda dal 24 marzo su Sky Atlantic



17 febbraio 1992: il pool della Procura della Repubblica di Milano, guidato dal magistrato Antonio Di Pietro (Antonio Gerardi), coglie in fragranza di reato l’ingegnere Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro del Partito Socialista Italiano, con ancora in mano una tangente di sette milioni di lire. Nella squadra di Di Pietro c’è anche Luca (Domenico Diele), poliziotto appena entrato nel team, che ha delle forti motivazioni personali: il suo obiettivo è incastrare anche un altro imprenditore di Milano, Michele Mainaghi (Tommaso Ragno), colpevole di avergli rovinato la vita. 

Comincia così 1992, serie in dieci puntate prodotta da Sky Atlantic HD e Wildside, in collaborazione con La7, che racconta un anno fondamentale per la storia italiana, in cui, grazie allo scandalo di Mani pulite, che ha portato poi alla scoperta di Tangentopoli, ha scoperchiato una trama fitta di corruzione intrecciata a diversi livelli, che univa politica, economia, spettacolo e comunicazione. Nata da un’idea di Stefano Accorsi, la serie, scritta da Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo, sceglie di raccontare il cambiamento politico e culturale di quegli anni lasciando le indagini e i personaggi reali sullo sfondo, puntando invece l’obbiettivo su dei protagonisti di finzione, che portano su di sé la responsabilità di raccontare diversi elementi fondamentali dell’Italia di venti anni fa, che hanno portato al paese di oggi. 

Oltre a Luca, una delle 60mila vittime del sistema di appalti sanitari truccati, che portò all’epoca alla diffusione dell’HIV a causa di una partita infetta di sacche di sangue per la trasfusione, c’è anche Veronica (Miriam Leone), aspirante soubrette che si lega all’imprenditore Mainaghi per ottenere la conduzione di Domenica In, incarnando così una delle capostipite del sistema marcio del mondo dello spettacolo italiano, venuto poi a galla nel 2006 con l’inchiesta Vallettopoli. Significativo anche il personaggio di Pietro Bosco (Guido Caprino), ex militare di istanza in Afghanistan rimandato in patria con disonore, che si lancia in politica con il nascente partito della Lega Nord

A unire i destini di tutti i personaggi è la figura carismatica e ambigua di Leonardo Notte (Stefano Accorsi), ex sessantottino ora esperto di pubblicità, che sa essere estremamente persuasivo scavando nelle debolezze e nei desideri delle persone, chiamato a individuare una figura vincente da lanciare in politica per oscurare lo scandalo di Mani pulite. Da eminenza grigia che percorre i corridoi del potere senza però mai mostrare il volto in prima persona, Notte è una figura inquietante e allo stesso tempo affascinante, che precorre i tempi e cavalca l’onda del cambiamento, cercando contemporaneamente di lasciare tutto immobile e immutabile. Un personaggio complesso e sfaccettato, che, secondo la stessa ammissione degli autori, si ispira al Don Draper di Mad Men, incarnato con la giusta convinzione da Accorsi, alla sua migliore interpretazione degli ultimi anni. 

Inevitabile il confronto con Gomorra e Romanzo Criminale, le altre due serie evento prodotte sempre da Sky, che raccontano periodi diversi della storia italiana: collocandosi esattamente a metà tra gli anni ’70 della Banda della Magliana e la Scampia moderna, la Milano anni ’90 di 1992 è l’anello di congiunzione tra le due serie, non solo temporalmente, ma anche geograficamente, mostrando un mondo che è meno violento della Napoli dei camorristi o dei criminali di Roma, ma che è forse più destabilizzante, nascondendo corruzione e violenza in ambienti apparentemente irreprensibili e onesti, in cui i corrotti indossano cravatte e uccidono a colpi di mazzette. 

Impeccabile il lavoro di ricostruzione storica, non solo per quanto riguarda scenografie e costumi, ma soprattutto per l’utilizzo intelligente della musica, cui si aggiungono le composizioni originali di Davide “Boosta” Dileo, tastierista e fondatore dei Subsonica, e dei programmi televisivi dell’epoca: spezzoni di Non è la Rai, Casa Vianello e Domenica In riescono a raccontare il periodo molto più dei dialoghi. Convincente anche la regia di Giuseppe Gagliardi, già autore del film Tatanka, che sta addosso ai suoi personaggi non lasciandoli nemmeno un minuto, inquadrandoli da vicino e spesso scomponendo i loro volti in semplici occhi, orecchie e bocche, rendendoli così i frammenti di una generazione intera. 

Progetto ambizioso, 1992 è nato, secondo le intenzioni degli autori, come il primo tassello di una trilogia, che, se sarà confermata, arriverà fino al 1994. La prima stagione, presentata in anteprima al Festival di Berlino, debutterà in Italia, e contemporaneamente in Gran Bretagna, Germania, Irlanda e Austria, il prossimo 24 marzo su Sky Atlantic HD.


giovedì 5 febbraio 2015

“TURNER”: HERE COMES THE SUN

Il regista Mike Leigh racconta la vita fatta di contrasti del pittore William Turner, sublime catturatore di luce, interpretato da Timothy Spall, premiato a Cannes come migliore attore protagonista 



La sublime potenza della luce catturata su una tela, lo splendore eterno del sole e la vita di un semplice uomo per sua natura trascinato verso il basso dall’effimera esistenza umana, appesantita da bisogni fisiologici, paure, dolori e passioni, ma in grado di elevarsi sopra i suoi simili grazie a un dono quasi mistico: maestro dalla pittura paesaggistica e mago del colore, tanto da anticipare il movimento Impressionista, Joseph Mallord William Turner è uno dei grandi dell’800, entrato alla Royal Academy of Arts a soli 14 anni e noto con il soprannome di “pittore della luce”. 

Una figura in genere poco approfondita, di cui si conoscono lo stile e le tele più famose, ma che raramente è apprezzata andando oltre l’osservazione dei suoi quadri alla National Gallery di Londra. In netto contrasto con la bellezza quasi eterea dei suoi acquerelli marini o la forza pastosa dei suoi paesaggi più drammatici, il Turner privato era un uomo come tanti, non bello, sgraziato, con un rapporto difficile con la madre e la moglie, distrutto dal dolore prima per la perdita dell’amata sorella e poi del padre, barbiere illetterato divenuto il suo primo ammiratore e assistente, la cui scomparsa gettò il pittore in una profonda depressione. Amante del cibo, del vino, del sesso e dell’ironia, Turner non accettava compromessi, non sopportava la stupidità e si esprimeva spesso con grugniti e monosillabi, dando di sé un’immagine non propriamente amabile, in netto contrasto con la bellezza struggente delle sue opere. 

Una figura dunque piena di contrasti, fatta di luce e buio, in cui sublime e terreno si fondono, creando un personaggio affascinante, che non poteva non intrigare Mike Leigh, regista inglese che ha fatto del racconto della vita quotidiana anche nei suoi aspetti più sgradevoli il suo tratto distintivo. Rimanendo fedele alla sua idea di cinema, Leigh non realizza un classico biopic in cui la vita del personaggio in questione è raccontata per filo e per segno, ma sceglie di analizzare gli ultimi 26 anni del pittore, ormai adulto e affermato, in lotta con i suoi demoni interiori e perennemente in contatto con la morte e la perdita. Per raccontare Turner e la vita della prima metà dell”800, Leigh compie un grandissimo lavoro di ricostruzione storica, non abbellendo i suoi personaggi rendendoli più simili ai canoni estetici di oggi e curando tutto nei minimi dettagli, dalla sporcizia degli ambienti al decadimento di pelle e denti, fino a non far lavare con frequenza i capelli ai suoi attori, per rendere i personaggi il più verosimili possibile. 

Attraverso il racconto di vari episodi della vita di Turner, Leigh costruisce un racconto che ha il grande respiro della vita, in cui ogni frammento va a comporre un disegno più grande, come se ogni momento rappresentato fosse una pennellata all’interno di una tela, creando un parallelo interessante tra il lavoro del pittore e quello del regista, entrambi intenti a catturare la vita nelle loro opere. 

Ad aiutare il regista nella sua impresa sono la straordinaria fotografia di Dick Pope, che fa davvero risplendere la pellicola di luce, quasi come se l’essenza dell’arte di Turner si materializzasse a ogni fotogramma, e il suo protagonista, Timothy Spall, un Turner sanguigno e vorace, intento a sputare sulle sue tele, a gettarsi sui colori come un animale, in grado di dare sfumature diverse a grugniti e versi gutturali, dando corpo e spessore alla sua interpretazione, per la quale si è preparato due anni e mezzo imparando davvero a dipingere, e per cui è stato premiato come migliore attore al Festival di Cannes

Notevoli anche le prove delle due donne fondamentali nella vita del pittore: Sophia Booth, proprietaria di una locanda rimasta due volte vedova che si occupa di Turner negli ultimi anni della sua vita, interpretata da Marion Bailey, che compie uno straordinario lavoro sull’accento e sulla risata che caratterizza il personaggio, e soprattutto Hannah Danby, la sua domestica, trattata come un oggetto dall’artista, utilizzata per le sue repentine voglie sessuali e poi immediatamente dimenticata e lasciata sullo sfondo, che, grazie all’intensità di Dorothy Atkinson, in grado di comunicare tutta la sofferenza e anche la tenerezza del suo personaggio senza pronunciare quasi mai parola, è lo sguardo in contrasto con quello di Turner, relegata a una dimensione piccola e oscura, ma in grado comunque di compiere grandi sacrifici in nome del bello e dell’amore. 

Turner è dunque un viaggio alla scoperta di uomo normale dotato di un dono straordinario, ma anche una riflessione sull’arte, la perdita e la morte, sul progresso e sul significato di essere artisti, sulla bellezza sorprendente che può trovarsi in brevi attimi della vita di una persona, importanti e allo stesso tempo insignificanti di fronte alla magnificenza e alla grandezza della natura, rappresentata dal sole, potenza divina in grado di ispirare una vita intera.

Timothy Spall


La citazione: "Il Sole è dio"

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥♥

Uscita italiana: 29 gennaio 2015

Titolo originale: Mr. Turner
Regia: Mike Leigh
Anno: 2015
Cast: Timothy Spall
Colore: colore
Durata: 149 minuti
Genere: biografico
Sceneggiatura: Mike Leigh
Fotografia: Dick Pope
Montaggio: Jon Gregory
Musica: Gary Yershon
Paese di produzione: Regno Unito
Casa di produzione: Film4, Focus Feature International
Distribuzione italiana: BIM Distribuzione


sabato 31 gennaio 2015

ITALIANO MEDIO: LA GROTTESCA FEROCIA DELL'UOMO MEDIO

Al suo esordio cinematografico Marcello Macchia, in arte Maccio Capatonda, confeziona una commedia spietata e feroce, in cui nessuno è esente da difetti e contraddizioni, soprattutto l'italiano medio del titolo, creatura a due facce furba e spregevole. 



Star del web da quasi un decennio, Marcello Macchia, noto al pubblico con il soprannome di Maccio Capatonda, può essere considerato di diritto il padre di tutti i videomaker contemporanei, dai The Jackal ai The Pills, colui che per primo ha tracciato il sentiero e usato YouTube non solo per mettersi in mostra, ma soprattutto per raccontare storie. All'inizio creatore di parodie di reality show, poi di finti trailer cinematografici caratterizzati da nomi estrosi, infine autore di webserie di successo come Mario e ideatore di personaggi ormai entrati nell'immaginario collettivo, basti pensare a Padre Maronno, Mariottide o Billy Ballo, Maccio Capatonda ha saputo costruire un suo stile identificabile, premiato dal web.

Per un fruitore bulimico di film, serie tv, videogiochi e televisione come Macchia, che unisce la passione per registi come Stanley Kubrick e Dario Argento a quella per serie animate come I Griffin, sceneggiatore, regista, attore e montatore dei suoi progetti, era dunque naturale pensare di passare al lungometraggio, sfida intrapresa anche da molti comici italiani, che hanno compiuto il rischioso salto dalla televisione al grande schermo. 


Italiano Medio, dal web al grande schermo 

A differenza degli altri colleghi però, Capatonda è consapevole del mezzo che usa e, occupandosi a 360° della pellicola, non incorre negli errori che continuano a compiere molti degli altri comici italiani: tratto dall'omonimo corto del 2012, andato in onda per la prima volta all'interno del programma Ma anche no, condotto da Antonello Piroso, Italiano Medio non è un semplice collage delle gag più famose del comico, ma una storia a tutto tondo, con una sua struttura fluida e coerente. Pur non mancando riferimenti al "canone capatondiano" (basti pensare alla gag dell'Uomo che usciva la gente o ai richiami costanti al corto da cui tutto è nato), Italiano Medio è una spietata, dissacrante e a tratti sconfortante parodia della società italiana contemporanea, popolata di figure distorte ed esagerate, che paradossalmente trovano il culmine della loro spregevolezza proprio nella loro versione "media". 


Giulio Verme, idealista al 20% e cafone al 2% 

Protagonista della pellicola è Giulio Verme, interpretato da Capatonda, un idealista che si batte per il rispetto dell'ambiente ma, cercando di essere coerente con le sue idee, si ritrova a fare un lavoro insoddisfacente e a essere compatito perfino dalla sua fidanzata, Franca (Lavinia Longhi). Spinto dall'amico Alfonso (Luigi Luciano) a provare una pasticca che fa abbassare l'utilizzo del suo cervello dal 20 al 2%, Giulio si trasforma in un cafone gretto e senza morale, che passa le sue giornate a guardare i reality, rimorchiare donne e giocare ai videogiochi. A dimostrare l'impronta autoriale della pellicola, il cambiamento del protagonista è sottolineato da un differente uso della fotografia, che passa dai toni grigi del Giulio al 20% a quelli saturi e dopati del Giulio al 2%, con l'aiuto anche di diversi effetti speciali, insoliti per una commedia. 


Un pugno in faccia allo spettatore 

Popolato da figure inquietanti perché allo stesso tempo esagerate ma verosimili, come il viscido produttore televisivo interpretato da Franco Mari, alias Rupert Sciamenna, o la volgare vicina Sharon (Barbara Tabita), Italiano Medio non risparmia nessuno e manifesta il suo disprezzo sia per gli idealisti puri che per i menefreghisti incorreggibili, mettendo sullo stesso piano calciatori, aspiranti vip, ecoterroristi e giornalisti. Grazie a una folta schiera di personaggi, che sembrano gli eredi diretti di I mostri di Dino Risi, Capatonda esprime il suo disgusto per una società schiava della televisione e dell'eccesso, che non sa più distinguere la vita reale da quella sui social e che si involgarisce sempre di più. A stabilizzare completamente lo spettatore più smaliziato è però la figura dell'italiano medio del titolo: un ibrido furbo e interessato dei due estremi, che ha capito la convenienza del compromesso e ci si trova benissimo, non curandosi delle proprie contraddizioni morali. Uno specchio raggelante, che fa intuire, dopo le risate, che in realtà abbiamo visto noi stessi, e il riflesso non è dei più gradevoli.

Maccio Capatonda


La citazione: "Con questo lo usi solo il due per cento!"

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥

Uscita italiana: 29 gennaio 2015

Titolo originale: Italiano Medio
Regia: Marcello Macchia
Anno: 2015
Cast: Maccio Capatonda, Herbert Ballerina, Ivo Avido, Barbara Tabita, Lavinia Longhi, Rupert Sciamenna, Nino Frassica
Colore: colore
Durata: 100 minuti
Genere: commedia
Sceneggiatura: Maccio Capatonda, Herbert Ballerina, Marco Alessi, Sergio Spaccavento, Danilo Carlani, Daniele Grigolo
Fotografia: Massimo Schiavon
Montaggio: Maccio Capatonda, Giogiò Franchini
Musica: Chris Costa, Fabio Gargiulo
Paese di produzione: Italia
Casa di produzione: Lotus Production, Medusa Film
Distribuzione italiana: Medusa Film


martedì 9 dicembre 2014

Mommy – And after all you're my wonderwall

Al suo quinto film il regista 25enne Xavier Dolan firma la sua opera più matura e ambiziosa, in bilico tra emozioni sfrenate e ricercatezza formale, animale dal fascino multiforme e dalla carica seduttiva inarrestabile, vincitrice del Premio della giuria al Festival di Cannes 2014




Diane Després (Anne Dorval) è una mamma single sboccata e irascibile, rimasta sola a occuparsi del figlio quindicenne Steve (Antoine-Olivier Pilon), violento e irrefrenabile come lei ma a livelli patologici. Continuamente in conflitto con gli altri e le istituzioni, Steve non ha amici al di fuori di sua madre, cui è legato da un complicato rapporto di amore e odio, che sfocia spesso in liti furibonde ma che ogni tanto è illuminato da disperati gesti d'affetto. Tra loro si inserisce la timida e balbuziente nuova vicina, Kyla (Suzanne Clément), paziente e silenziosa, il completo opposto di Diane e Steve: grazie a questo terzo elemento, il mondo di madre e figlio sembra trovare un insperato equilibrio. 

A soli 25 anni, il regista canadese Xavier Dolan è una delle voci più energiche e particolari del cinema contemporaneo: autore autodidatta e talento poliedrico (è sceneggiatore, regista, montatore, compositore, costumista e spesso anche attore dei suoi film), Dolan ha una carica vitale quasi animalesca e sovversiva che traspare da ogni sua pellicola, a cominciare da J'ai tué ma mère, folgorante esordio firmato ad appena 20 anni. Come nel primo film, in Mommy, sua quinta pellicola vincitrice del Premio della giuria al Festival di Cannes 2014, Dolan si concentra sul rapporto tra una madre e un figlio, allo stesso tempo soffocati e protetti dal reciproco amore: schiacciati e dimenticati da una società che li tiene ai margini, Diane e Steve vivono in un mondo parallelo in cui nessuno prima di Kyla era riuscito a entrare. Per dare la giusta forma alla sua storia, Dolan sceglie di comprimere i personaggi in un formato insolito, un 1:1 che intrappola i suoi protagonisti come pesci in un acquario, rabbiosi per la mancanza di spazio e ossigeno e continuamente sul punto di esplodere. 

Come il suo protagonista, anche il regista è dotato di una carica vitale e una forza elettrica che si fonde con la sua opera: formatosi da solo, cresciuto in un ambiente culturalmente povero e ispirato dai film della sua infanzia, tra cui ricorda spesso Titanic, Batman – Il ritorno e Mamma ho perso l'aereo, Dolan è un talento puro, che si è accresciuto con la forza della sua voglia di fare e sperimentare, a volte incosciente e forse anche compiaciuta, ma di innegabile carica trascinante. Sincero e generoso dietro e davanti la macchina da presa, Dolan non ha paura di piegare il mezzo alle sue regole, creando un cinema totale cui imprime in ogni aspetto la sua personalità, con una decisione e una naturalezza che sorprendono. 

Bipolare e folle nei temi e nello stile, il regista canadese in Mommy riesce a tenere a bada il suo furore cinematografico senza snaturarlo, firmando una delle sue opere più mature e affascinanti, in grado di spiazzare lo spettatore grazie all'uso delle musiche (straordinario il momento in cui il protagonista ascolta "Wonderwall" degli Oasis e la scena finale sulle note di Lana Del Rey) e a dialoghi frenetici: il regista mette una mano davanti alla bocca del pubblico e allo stesso tempo lo bacia, proprio come il protagonista del suo film, in un gioco di forza tra il sentimento più sfrenato e la ricerca della forma perfetta. 

Primo film del regista distribuito in Italia grazie a Good Films, Mommy è una pellicola sorprendente da seguire e vivere fino all'ultimo tragicomico minuto, così come la carriera del suo giovane regista, che speriamo riesca a domare con sempre maggior maestria il suo talento senza snaturarlo.

Antoine-Olivier Pilon


La citazione: "La vita con Steve è come un salto nel vuoto: non sai mai se cadrai in piedi o sbatterai la faccia a terra"

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥♥1/2

Uscita italiana: 4 dicembre 2014


Titolo originale: Mommy
Regia: Xavier Dolan
Anno: 2014
Cast: Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément
Colore: colre
Durata: 134 minuti
Genere: drammatico
Sceneggiatura: Xavier Dolan
Fotografia: André Turpin
Montaggio: Xavier Dolan
Musica: Eduardo Noya
Paese di produzione: Canada
Casa di produzione: Metafilms
Distribuzione italiana: Good Films





Pubblicato su XL.


Magic in the Moonlight – A kind of magic

Dopo Midnight in Paris, Woody Allen torna nella Francia degli anni '20, imbastendo un racconto formato dagli elementi migliori delle sue commedie più riuscite degli ultimi dieci anni, interrogandosi ancora una volta sull'amore e sulle illusioni, e infondendo alla pellicola una luce e dei colori mai visti prima nella sua opera 




Berlino, 1928, spettacolo di magia: il prestigiatore Wei Ling Soo riesce a far sparire un elefante sulle note di Stravinsky, lasciando il pubblico stupefatto. Nonostante la sincera meraviglia degli spettatori, nei suoi prodigi non c'è nulla di vero, il mago non è nemmeno un vero cinese: sotto i baffi finti di Wei si cela infatti l'inglesissimo Stanley (Colin Firth), misantropo in grado di creare illusioni meravigliose. Chiamato dal collega e amico Howard (Simon McBurney) a smascherare Sophie (Emma Stone), una sedicente medium che ha stregato il rampollo della ricca famiglia Catledge, il disincantato Stanley si reca nel sud della Francia, intento a provare a tutti, e soprattutto a se stesso, che non c'è altro a questo mondo se non la realtà materiale e i trucchi che da secoli l'uomo mette in pratica per convincersi che non sia così. Le certezze del mago vacillano però quando si trova di fronte il sorriso della giovane Sophie, sensitiva che sembra leggergli nella mente soprattutto grazie ai suoi occhi luminosi. 

Tornato in Francia a tre anni di distanza da Midnight in Paris, Woody Allen continua a farsi ispirare dall'Europa - anche se, come ha dimostrato la precedente pellicola Blue Jasmine, la musa che lo ispira meglio continua a essere New York - e dopo aver celebrato Londra, Barcellona, Parigi e Roma, si concede ora un lussuoso soggiorno sulle spiagge della Costa Azzurra, imbastendo un racconto che recupera gli elementi migliori delle sue commedie dell'ultimo decennio. In Magic in the Moonlight c'è infatti la Francia degli anni '20, con il jazz e gli abiti per ballare il charleston, come in Midnight in Paris, al centro di tutto c'è la magia come in Scoop e come in Basta che funzioni i protagonisti sono una classica “strana coppia”, formata da un misantropo disilluso e nichilista e una giovane ragazza che mette in discussione la sua intera esistenza. 

Protagonisti della pellicola sono il sempre sofisticato ed elegante Colin Firth, irresistibile e cinico al punto da essere insopportabile e allo stesso tempo esilarante, ed Emma Stone, sirena che offusca la razionalità del primo: tra corse in costiera e dissertazioni sull'amore, i due instaurano un balletto verbale a tempo di swing, che tocca ancora una volta il tema caro ad Allen della felicità vista come trucco con cui beffare la morte e il nulla, secondo cui qualsiasi attimo di piacere e gioia va afferrato con la consapevolezza che è sì un'illusione, ma che, se ci rende felici, “basta che funzioni”. 

Al di là della trama simile, e affrontata forse con maggiore brillantezza in passato, ad altre pellicole del regista newyorchese, resa comunque piacevole grazie ai due ottimi protagonisti, la vera bellezza e novità di Magic in the Moonlight sta nella luce e nei colori: quasi mai in un film di Allen c'era stata una ricchezza tale di sfumature e luminosità, abbagliante di giorno ed effettivamente magica al chiaro di luna. 

La felicità sarà anche un'illusione e il mondo un posto infelice e ingannevole, ma di fronte a tanta luminosa bellezza non si può restare indifferenti.

Colin Firth ed Emma Stone


La citazione: "Tu sei la prova che c'è di più: più mistero, più magia"

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥

Uscita italiana: 4 dicembre 2014


Titolo originale: Magic in the Moonlight
Regia: Woody Allen
Anno: 2014
Cast: Colin Firth, Emma Stone, Eileen Atkins, Simon McBurney, Jacki Weaver, Marcia Gay Harden, Hamish Linklater
Colore: colore
Durata: 97 minuti
Genere: commedia
Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Darius Khondji
Montaggio: Alisa Lepselter
Musica: autori vari
Paese di produzione: USA
Casa di produzione: Perdido Productions
Distribuzione italiana: Warner Bros.





Pubblicato su XL.


lunedì 24 novembre 2014

Hunger Games: Il canto della rivolta parte 1 – Fuori dall’arena la rivoluzione è mediatica

Arriva in sala il terzo capitolo di Hunger Games, tratto dall’omonima saga letteraria di Suzanne Collins, prima parte dell’ultimo tomo, diviso in due per il cinema, che fa da prologo al gran finale previsto per il prossimo anno 



Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence) sta alle eroine delle saghe cinematografiche così come Mulan alle principesse Disney: la giovane abitante di Panem, letale con l’arco e divisa tra l’amore di Gale (Liam Hemsworth) e quello di Peeta (Josh Hutcherson), rappresenta un punto di svolta nei blockbuster destinati ai più giovani, proprio come la ragazza cinese che, osando sfidare perfino gli Unni e l’Imperatore, salva sia il suo popolo che l’uomo che ama, riscattando decine di principesse che prima di lei si erano limitate a sposarsi e a farsi soccorrere dal principe azzurro. Contrariamente a quanto accaduto a Mulan però, Katniss non è costretta a fingersi uomo, anzi, usa il suo aspetto femminile e alcuni degli artifici tipici del gentil sesso, come il trucco e i vestiti, quali mezzi da usare nella sua battaglia, dapprima personale e poi universale, al pari delle frecce, trasformandosi così in un personaggio a tutto tondo che non rientra né nello stereotipo della “donzella indifesa e innamorata”, né in quello del “maschiaccio”. Una figura praticamente inedita in questo genere di film, fatto che trasforma la protagonista di Hunger Games in una figura di rottura destinata a diventare un’icona. 

Grazie a questo aspetto, e a un’idea di base che unisce caratteristiche dell’antica Roma alle strategie di comunicazione tipiche del nostro tempo, la saga, tratta dai romanzi di Suzanne Collins, è sicuramente uno dei franchise per ragazzi più interessanti degli ultimi anni, anche grazie alla sua protagonista, Jennifer Lawrence, per una volta non emaciata e dai lineamenti delicati come altre eroine, ma con un physique du role adatto al ruolo che interpreta. 

Dopo due film incentrati sui giochi, in cui i tributi dei vari distretti devono uccidersi tra loro, il terzo capitolo di Hunger Games si affaccia fuori dall’arena e affronta una guerra più sottile e subdola: lo scontro tra i ribelli simboleggiati da Katniss e il presidente Snow (Donald Sutherland) è una lotta che va avanti a colpi di spot e proclami mediatici, in cui le crudeli azioni militari sono portate avanti in funzione di ottenere video con cui plasmare l’opinione delle masse, pronte a credere al testimonial più convincente piuttosto che ai fatti. 

In Il canto della rivolta – parte 1, l’ex ragazza di fuoco è chiamata a diventare il simbolo della ribellione contro Capitol City, centro di potere di Panem: a puntare tutto su Katniss è Plutarch Heavensbee (Philip Seymour Hoffman), braccio destro di Alma Coin (Julianne Moore), presidente del tredicesimo distretto e capo della rivolta contro Snow. Coin fa di Katniss il volto della lotta contro il potere, ingaggiando appositamente un team di registi e operatori incaricati di girare dei video da usare come scintille per innescare la reazione a catena che deve portare al rovescio del governo di Capitol City. Divenuta così “la ghiandaia imitatrice”, Katniss accetta di combattere ma allo stesso tempo ha un pensiero che la assilla: la salvezza di Peeta, prigioniero di Snow divenuto la sua arma di propaganda anti-ribelli. 

I temi affrontati in questo terzo capitolo fanno fare un balzo in avanti alla saga, riuscendo a trasformare Hunger Games in qualcosa di più di una semplice versione americana del fumetto giapponese Battle Royale, offrendo spunti interessanti come l’importanza sempre più cruciale del marketing e della comunicazione, della potenza enorme che può avere un simbolo, e costruendo anche un discorso sul cinema stesso, mezzo in grado di creare storie ed eroi grazie all’uso delle immagini (la stessa Katniss viene ripresa, a volte addirittura davanti a un green screen e altre sul campo, creando un curioso effetto meta-cinematografico). Il canto della rivolta parte 1 è dunque, fino a ora, il capitolo più maturo e dark della saga, ma, nonostante i diversi aspetti positivi, deve piegarsi a una forza più grande: gli interessi economici. Seguendo la scia di Warner Bros. e della Summit Entertainment, che hanno sdoppiato in due i finali di Harry Potter e Twilight, anche la Lions Gate ha deciso di dividere in due il terzo e ultimo capitolo di Hunger Games, andando incontro a un allungamento eccessivo e sproporzionato della storia: questa prima parte è un preludio dilatato che invoglia lo spettatore ma che non decolla mai, preparando il terreno alla conclusione in cui, si presume, esploderà davvero tutto il potenziale della saga.

In questo terzo capitolo tutto è sacrificato in favore dei tormenti interiori della protagonista, divisa non solo tra i suoi due amati, Peeta e Gale, ma anche nel suo ruolo, non abbracciando in pieno l’incarico di “simbolo” e anteponendo spesso i suoi sentimenti personali al bene della comunità. In questo modo diversi personaggi sono sacrificati, Peeta e Gale in primis, ma anche Finnick (Sam Claflin) e gli stessi Plutarch, Coin e Snow, relegati a poche scene. Tutto il peso della pellicola ricade dunque sulle spalle larghe della protagonista, che, chiamata ad affrontare diverse scene drammatiche, risulta meno convincente rispetto alla prova data nelle scene d’azione viste nei capitoli precedenti, peccando spesso di recitazione esagerata e sopra le righe. L’overacting della Lawrence è sottolineato maggiormente quando si trova a recitare di fronte ad artisti raffinati come Julianne Moore, perfetta anche di fronte a un microfono, Philip Seymour Hoffman, in una delle sue ultime prove, o anche Elizabeth Banks, che fornisce gli unici momenti di humor del film, e Woody Harrelson, che ha pochissime battute ma quando prende la parola ruba la scena a chiunque. 

Questo “promo”del finale sembra dunque un girare a vuoto, che cerca in continuazione di mettere in scena il dramma senza mai emozionare realmente e che diventa davvero interessante proprio negli ultimi minuti, lasciando con la sgradevole sensazione di aver assistito a un qualcosa di semplice “passaggio”. 

Aspettiamo dunque il prossimo anno in cui, ed è strano dirlo, speriamo di “bruciare” davvero insieme ai ribelli di Panem e alla loro ghiandaia imitatrice.

Jennifer Lawrence e Julianne Moore


La citazione: "Se noi bruciamo, voi bruciate con noi"

Hearting/Cuorometro: ♥♥1/2

Uscita italiana: 20 novembre 2014


Titolo originale: The Hunger Games: Mockingjay - Part 1
Regia: Francis Lawrence
Anno: 2014
Cast: Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman, Donald Sutherland, Woody Harrelson, Elizabeth Banks, Jeffrey Wright, Stanley Tucci, Sam Claflin, Natalie Dormer, Willow Shields
Colore: colore
Durata: 123 minuti
Genere: avventura
Sceneggiatura: Danny Strong, Peter Craig
Fotografia: Jo Willems
Montaggio: Alan Edward Bell, Mark Yoshikawa
Musica: James Newton Howard
Paese di produzione: USA
Casa di produzione: Lions Gate
Distribuzione italiana: Universal Pictures




Pubblicato XL.


venerdì 7 novembre 2014

Interstellar: "There's a starman waiting in the sky"

Christopher Nolan costruisce il più classico dei viaggi spazio-temporali per tuffarsi con coraggio nel buco nero dell'ignoto e trasformare la magia del cinema nella quinta dimensione


Fin dal primo respiro, conosciamo ed esploriamo il mondo utilizzando i nostri sensi: vista, udito, tatto, gusto, olfatto, grazie ai neuroni sensoriali creiamo una mappa della vita, la trasformiamo in esperienza, ricordi, emozioni. E se è vero che anche piante e animali possiedono un sistema nervoso, quello dell'uomo si è sviluppato a tal punto da portarlo a interrogarsi sul perché della sua esistenza, a desiderare di trascendere la sua natura mortale e limitata, a chiedersi cosa ci sia nello spazio profondo oltre a noi, minuscoli granelli di sabbia in confronto alla vastità dell'universo.

La natura contraddittoria dell'uomo, uno spirito che tende all'infinito racchiuso dentro un corpo mortale, è forse il tratto più affascinante del genere umano, che ha tormentato e ispirato nel corso dei secoli poeti, scienziati e filosofi. Questa natura è il centro d'interesse dell'opera di Christopher Nolan, regista che fin dai suoi primi lavori ha cercato di esplorare i sensi umani e le implicazioni morali che portano con sé: dopo aver scomposto la memoria in particelle elementari in Memento, aver dimostrato l'estrema facilità con cui può essere ingannato lo sguardo in The Prestige ed essersi tuffato negli abissi più profondi del subconscio in Inception, il naturale step evolutivo della cinematografia del regista inglese non poteva che essere l'affrontare il mistero sublime dell'ignoto.

Pescando a piene mani dai film di fantascienza che più hanno contribuito all'evoluzione del genere, Nolan ha costruito il suo personale ritratto della natura umana: nella sua ultima pellicola il regista ha l'ambizione di spingersi dove nessun altro ha mai osato prima, ovvero direttamente all'interno del buco nero dell'ignoto, cercando di fornire una risposta.

In Interstellar siamo di fronte a uno scenario apocalittico: la Terra è ormai spacciata, le sue risorse sono quasi esaurite e l'uomo è tornato a uno stadio primitivo in cui agli scienziati si preferiscono gli agricoltori. Cooper (Matthew McConaughey), un ingegnere e astronauta che ha sognato da sempre lo spazio senza mai poterci andare, non è pronto ad accettare con rassegnazione la fine del genere umano e il suo imbarbarimento: grazie alla figlia, Murph, chiamata così in onore della Legge di Murphy, segue il suo sogno e parte alla ricerca di un nuovo pianeta in cui l'umanità possa vivere. Durante il viaggio però, Cooper deve fare i conti con diversi fantasmi, a cominciare dal tempo, che nello spazio scorre a velocità differente che sulla Terra, e soprattutto con i sentimenti, che possono portare a grandi gesti di altruismo o a egoistica violenza.

Il riferimento principe del nuovo film di Nolan, grande estimatore di Stanley Kurbrick, è palese: il regista inglese ha concepito e realizzato il suo 2001: Odissea nello spazio, inserendo, come nella pellicola del 1968, buchi neri e salti temporali, interrogativi filosofici e immagini mozzafiato, creando persino dei robot che nel design ricordano il monolite nero del film di Kubrick. 2001 però non è l'unica fonte di ispirazione: come in L'uomo dei sogni, film del 1989 di Phil Alden Robinson, c'è il rapporto tra un padre e una figlia, piantagioni di granturco e campi da baseball, e come in Solaris, pellicola del 1972 di Andrej Tarkovskij, c'è lo studio di nuovi pianeti e lo straziante rapporto tra chi viaggia tra le stelle e chi invece rimane sulla Terra. Come un Don Chiscotte spericolato, Nolan decide però di fare il passo successivo: contrariamente a quanto fatto da Kubrick, il cui film è un'esperienza visiva che penetra direttamente nel subconscio per stimolarlo e interrogarlo e su cui ognuno può speculare a suo piacimento, Nolan decide di spingersi oltre cercando di fornire le risposte a quegli interrogativi. La grandezza di Interstellar, così come la sua debolezza, sono qui: da una parte il coraggio del regista è ammirevole, dall'altra, a meno che lo spettatore non decida di farsi coinvolgere dalla sua visione, che è umana e quindi per sua natura non misurabile scientificamente ma soggettiva, l'ambizione del regista potrebbe essere confusa facilmente con presunzione o hybris.

A prescindere dal fatto che la risposta piaccia o meno, il modo di arrivare a quella risposta è fondamentale: che lo si ami o lo si odi, Christopher Nolan è forse l'unico regista in grado di realizzare grandi film dal budget milionario che allo stesso tempo sono opere autoriali, in cui la forma e il contenuto cercano di coesistere e di darsi forza a vicenda. Il viaggio fisico e interiore di Cooper è terribile e affascinante, reso tangibile da immagini spettacolari che si accompagnano a fiumi di parole, che cercano di spingere lo spettatore sempre un gradino più in là. Questa natura duplice del film di Nolan, da un lato forte di immagini di grande impatto e parole inarrestabili, è ancora una volta forza e debolezza: se da una parte gli intricati sviluppi della trama sono affascinanti, dall'altra appesantiscono a volte il racconto, laddove le immagini erano già sufficienti a raccontare.

Questi aspetti apparentemente contraddittori dell'opera di Nolan sono però l'elemento chiave: il regista sa che, dato che ognuno di noi è dotato di un sistema nervoso simile a quello dei suoi simili ma unico e differente, non è possibile avere un'identica visione del mondo, soprattutto emotiva, quindi dapprima cerca di portare lo spettatore sull'orlo dell'abisso grazie a trame calcolate al millimetro e dati scientifici, e poi, una volta dentro l'ignoto, ne emerge con la sua visione personale. E cosa è l'arte se non la visione del mondo attraverso uno sguardo unico e personale? È proprio l'arte che permette di dare un senso al tempo e allo spazio, laddove fisica e numeri non possono, almeno per ora, arrivare: se comprendessimo davvero cos'è la quinta dimensione probabilmente saremmo esseri diversi, con emozioni e ambizioni diverse. La quinta dimensione, per chi non si accontenta semplicemente di sopravvivere ma vuole guardare in alto, non può che essere l'amore: nel caso dei personaggi del film l'amore tra un padre e una figlia, o un uomo e una donna, nel caso del regista amore per la cultura e il cinema, dimensione che fisicamente esiste solo nella pellicola, ma che in astratto plasma spazio e tempo, gioca con vista e udito, racchiude una vita in tre ore e suscita emozioni vere.


Il fascino di Interstellar è dunque nei versi di Dylan Thomas citati più volte: bisogna arrabbiarsi per il morire della luce, combattere l'oscurità della mente e dello spirito. All'uomo è stata data la scintilla della curiosità e dell'intelletto: usarla per attraversare l'infinitamente grande per poi tornare all'infinitamente piccolo è ciò che lo rende umano e splendidamente banale. L'artista che cerca di compiere questo atto, allo stesso tempo folle e coraggioso, assumendosi anche il rischio di fallire, è come l'uomo delle stelle cantato da David Bowie in Starman: "There's a starman waiting in the sky. He'd like to come and meet us. But he thinks he'd blow our minds".

Matthew McConaughey


La citazione: "Non andartene docile in quella buona notte, I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno; Infuria, infuria, contro il morire della luce".

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥♥

Uscita italiana: 6 novembre 2014


Titolo originale: Interstellar
Regia: Christopher Nolan
Anno: 2014
Cast: Matthew McConaughey, Jessica Chastain, Anne Hathaway, Michael Caine, David Gyasi, Wes Bentley, Matt Damon, John Litghow, Casey Affleck, Topher Grace, Mackenzie Foy
Colore: colore
Durata: 169 minuti
Genere: fantascienza
Sceneggiatura: Christopher e Jonathan Nolan
Fotografia: Hoyte Van Hoytema
Montaggio: Lee Smith
Musica: Hans Zimmer
Paese di produzione: USA, Regno Unito
Casa di produzione: Warner Bros., Syncopy Films, Paramount Pictures, Legendary Pictures
Distribuzione italiana: Warner Bros. 




Pubblicato su XL.

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