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giovedì 5 febbraio 2015

“TURNER”: HERE COMES THE SUN

Il regista Mike Leigh racconta la vita fatta di contrasti del pittore William Turner, sublime catturatore di luce, interpretato da Timothy Spall, premiato a Cannes come migliore attore protagonista 



La sublime potenza della luce catturata su una tela, lo splendore eterno del sole e la vita di un semplice uomo per sua natura trascinato verso il basso dall’effimera esistenza umana, appesantita da bisogni fisiologici, paure, dolori e passioni, ma in grado di elevarsi sopra i suoi simili grazie a un dono quasi mistico: maestro dalla pittura paesaggistica e mago del colore, tanto da anticipare il movimento Impressionista, Joseph Mallord William Turner è uno dei grandi dell’800, entrato alla Royal Academy of Arts a soli 14 anni e noto con il soprannome di “pittore della luce”. 

Una figura in genere poco approfondita, di cui si conoscono lo stile e le tele più famose, ma che raramente è apprezzata andando oltre l’osservazione dei suoi quadri alla National Gallery di Londra. In netto contrasto con la bellezza quasi eterea dei suoi acquerelli marini o la forza pastosa dei suoi paesaggi più drammatici, il Turner privato era un uomo come tanti, non bello, sgraziato, con un rapporto difficile con la madre e la moglie, distrutto dal dolore prima per la perdita dell’amata sorella e poi del padre, barbiere illetterato divenuto il suo primo ammiratore e assistente, la cui scomparsa gettò il pittore in una profonda depressione. Amante del cibo, del vino, del sesso e dell’ironia, Turner non accettava compromessi, non sopportava la stupidità e si esprimeva spesso con grugniti e monosillabi, dando di sé un’immagine non propriamente amabile, in netto contrasto con la bellezza struggente delle sue opere. 

Una figura dunque piena di contrasti, fatta di luce e buio, in cui sublime e terreno si fondono, creando un personaggio affascinante, che non poteva non intrigare Mike Leigh, regista inglese che ha fatto del racconto della vita quotidiana anche nei suoi aspetti più sgradevoli il suo tratto distintivo. Rimanendo fedele alla sua idea di cinema, Leigh non realizza un classico biopic in cui la vita del personaggio in questione è raccontata per filo e per segno, ma sceglie di analizzare gli ultimi 26 anni del pittore, ormai adulto e affermato, in lotta con i suoi demoni interiori e perennemente in contatto con la morte e la perdita. Per raccontare Turner e la vita della prima metà dell”800, Leigh compie un grandissimo lavoro di ricostruzione storica, non abbellendo i suoi personaggi rendendoli più simili ai canoni estetici di oggi e curando tutto nei minimi dettagli, dalla sporcizia degli ambienti al decadimento di pelle e denti, fino a non far lavare con frequenza i capelli ai suoi attori, per rendere i personaggi il più verosimili possibile. 

Attraverso il racconto di vari episodi della vita di Turner, Leigh costruisce un racconto che ha il grande respiro della vita, in cui ogni frammento va a comporre un disegno più grande, come se ogni momento rappresentato fosse una pennellata all’interno di una tela, creando un parallelo interessante tra il lavoro del pittore e quello del regista, entrambi intenti a catturare la vita nelle loro opere. 

Ad aiutare il regista nella sua impresa sono la straordinaria fotografia di Dick Pope, che fa davvero risplendere la pellicola di luce, quasi come se l’essenza dell’arte di Turner si materializzasse a ogni fotogramma, e il suo protagonista, Timothy Spall, un Turner sanguigno e vorace, intento a sputare sulle sue tele, a gettarsi sui colori come un animale, in grado di dare sfumature diverse a grugniti e versi gutturali, dando corpo e spessore alla sua interpretazione, per la quale si è preparato due anni e mezzo imparando davvero a dipingere, e per cui è stato premiato come migliore attore al Festival di Cannes

Notevoli anche le prove delle due donne fondamentali nella vita del pittore: Sophia Booth, proprietaria di una locanda rimasta due volte vedova che si occupa di Turner negli ultimi anni della sua vita, interpretata da Marion Bailey, che compie uno straordinario lavoro sull’accento e sulla risata che caratterizza il personaggio, e soprattutto Hannah Danby, la sua domestica, trattata come un oggetto dall’artista, utilizzata per le sue repentine voglie sessuali e poi immediatamente dimenticata e lasciata sullo sfondo, che, grazie all’intensità di Dorothy Atkinson, in grado di comunicare tutta la sofferenza e anche la tenerezza del suo personaggio senza pronunciare quasi mai parola, è lo sguardo in contrasto con quello di Turner, relegata a una dimensione piccola e oscura, ma in grado comunque di compiere grandi sacrifici in nome del bello e dell’amore. 

Turner è dunque un viaggio alla scoperta di uomo normale dotato di un dono straordinario, ma anche una riflessione sull’arte, la perdita e la morte, sul progresso e sul significato di essere artisti, sulla bellezza sorprendente che può trovarsi in brevi attimi della vita di una persona, importanti e allo stesso tempo insignificanti di fronte alla magnificenza e alla grandezza della natura, rappresentata dal sole, potenza divina in grado di ispirare una vita intera.

Timothy Spall


La citazione: "Il Sole è dio"

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥♥

Uscita italiana: 29 gennaio 2015

Titolo originale: Mr. Turner
Regia: Mike Leigh
Anno: 2015
Cast: Timothy Spall
Colore: colore
Durata: 149 minuti
Genere: biografico
Sceneggiatura: Mike Leigh
Fotografia: Dick Pope
Montaggio: Jon Gregory
Musica: Gary Yershon
Paese di produzione: Regno Unito
Casa di produzione: Film4, Focus Feature International
Distribuzione italiana: BIM Distribuzione


MIKE LEIGH: L’INTERVISTA AL REGISTA DI “TURNER”

Esce in questi giorni nelle sale italiane, il film sulla vita del pittore inglese, maestro nel catturare la luce dei paesaggi marini. Presentato in concorso al Festival di Cannes e premiato per la migliore interpretazione maschile del protagonista Timothy Spall 

Mike Leigh


Poeta della luce e maestro nell’arte paesaggistica, artista sublime e mago del colore, ma allo stesso tempo uomo burbero, pieno di ombre, dal passato triste e con un rapporto pessimo con quasi tutte le donne della sua vita, attaccato visceralmente all’esistenza ma angosciato dalla morte e dalla perdita: è comprensibile che Mike Leigh, regista in grado come pochi di raccontare la vita quotidiana e gli aspetti più intimi e a volte anche sgradevoli di una persona, sia rimasto affascinato dalla figura contraddittoria e singolare di William Turner, pittore inglese dell”800 in grado di catturare la meraviglia della luce nelle sue tele e orso nel privato. Presentato in concorso al Festival di Cannes, dove è stato premiato per la migliore interpretazione maschile a Timothy Spall, il film racconta gli ultimi 26 anni di vita di Turner, dalla perdita dell’adorato padre alla morte, avvenuta tra le braccia di Sophia Booth (Marion Bailey) al suono delle parole: “Il sole è Dio”. 

Abbiamo incontrato Mike Leigh che ci ha parlato del suo fascino per la figura di Turner, su cui ha compiuto anni di ricerche, e dell’esigenza di fare film che raccontino persone vere, colte anche nei loro difetti e debolezze. 

Mike Leigh e Timothy Spall sul set di Turner


Il suo film non è un classico biopic in cui si racconta la vita di un’artista, ma una riflessione sull’arte e sulla vita. 
“Sì, a un certo livello sì, non è un biopic, non ha una costruzione narrativa causale, ma una serie di immagini che sommate fanno una vita, è sicuramente una riflessione sull’arte e su quello che vuol dire essere un’artista. Non si vede il moto creativo perché è impossibile rappresentarlo, ma comunque nel film rifletto sulla figura dell’artista, un’occupazione che è anche fisicità, il sublime che si accompagna alla fatica: un aspetto che mi affascina”. 

Nel suo film non cerca di imbellire fatti e personaggi, una scelta in controtendenza rispetto ai biopic che vanno per la maggiore a Hollywood. 
“Credo che il successo del film sia dovuto anche a questo: quando si realizza un film sulla vita di un artista del genere ci si confronta con immagini iconiche, con miti che si decide di sfidare. Non solo in Turner, ma anche in tutte le mie pellicole cerco sempre di mostrare persone e vite vere: il sesso, l’amore non sono belli come nei film, perfino a Los Angeles le persone non sono belle come nei film di Hollywood. Fin da piccolo ho cercato la vita vera e ho sempre cercato di rimanere fedele a questa idea: all’epoca di Turner non si facevano mai la doccia, il grande artista non è una figura angelica, non lo si può rappresentare come se i suoi quadri fossero una proiezione ectoplasmatica della sua testa. Gli artisti si sporcano le mani. Comunque potrei farci un film di fantascienza su questa idea: artisti che creano opere come se fossero ectoplasmi”. 

Come mai ha deciso di mostrare nel film l’esperimento sul magnetismo? 
“Turner era affascinato dalla scienza, ha compiuto studi sui negativi e la fotografia ed era affascinato dai treni, era curioso e intrigato dal progresso: credo che tutti i cambiamenti che ha vissuto lo abbiano formato come persona e abbiano contribuito alla sua sensibilità di artista. Tutti gli artisti si alimentano di quello che vedono”. 

La scena della boa alla Royal Academy è accaduta davvero? 
“Sì, è accaduta veramente, ci sono delle prove di questo episodio. Abbiamo costruito il suo ritratto a partire da tutte le fonti che avevamo e abbiamo scoperto che Turner era un uomo come tutti: amava bere, scopare e fare battute”. 

Nel film il critico d’arte John Ruskin non è molto apprezzato da Turner: è un suo modo per esprimere l’opinione che ha dei critici? 
“No, era la rappresentazione di quella persona, Turner in particolar modo lo riteneva un cazzone, apprezzava il suo entusiasmo e soprattutto la ricchezza di suo padre che comprò diversi suoi quadri, ma fondamentalmente lo considerava un fesso”. 

Come mai ha deciso di raccontare la vita di Turner per episodi? 
“Non avrei saputo raccontare la storia in un altro modo: per me non è frammentata, credo sia importantissimo dare a un film una fluidità, un movimento, come nella musica. In realtà il film ha una sua sinuosità, un’architettura ben precisa. L’azione si sviluppa in 26 anni quindi il modo di raccontare più adatto per me era questo”. 

Il grugnito particolare che Timothy Spall fa per caratterizzare Turner è un fatto storicamente accertato? O è un aspetto che avete aggiunto per costruire il personaggio? 
"Sono abituato a mostrare persone così come sono nella vita vera e all’interno del loro comportamento. Abbiamo trovato diverse testimonianze su Turner e pare che effettivamente grugnisse, facesse strani rumori, fosse caustico e a volte rispondesse con monosillabi”. 

Ha sempre pensato a Timothy Spall come interprete ideale? 
“Non ho chiesto a nessun altro di recitare la parte: ho sempre pensato che Spall fosse il più adatto. La sua preparazione è durata due anni e mezzo: ha imparato davvero a dipingere”.

Quando ha capito che quella di Turner era una storia che voleva raccontare? 
“Anni fa mi trovavo alla National Gallery a osservare un suo quadro e ho pensato che poteva essere una bella storia. Poi mi sono documentato sul Turner privato, non il grande pittore, e sono rimasto colpito dal contrasto tra l’artista e l’uomo”. 

Da narratore di storie la affascina il fatto che un pittore abbia a disposizione una sola immagine per raccontare una storia intera? 
“In un certo senso sì: un regista racconta una storia ad ogni fotogramma e possiamo dire che la scelta dell’inquadratura è fondamentale, è come la prospettiva per un pittore, anche se, a differenza della pittura, il cinema ha il vantaggio del movimento e del tempo”.

Mike Leigh sul set di Turner


sabato 17 gennaio 2015

“ITALO”: VIDEOINTERVISTA A MARCO BOCCI E AL CAST

Abbiamo incontrato la regista Alessia Scarso e gli attori Marco Bocci, Elena Radonicich e Barbara Tabita, protagonisti di Italo, da questa settimana al cinema. Il film è ispirato alla storia vera di un meticcio divenuto un cittadino ufficiale di Scicli, città in provincia di Ragusa 


Pelo color miele, sguardo intelligente e una spiccata propensione a socializzare: Italo Barocco non è una persona, ma per gli abitanti di Scicli, città in provincia di Ragusa, è diventato ben presto un cittadino ufficiale. Comparso dal nulla in paese intorno al 2009, il cane si è fatto subito notare, partecipando alle funzioni religiose in Chiesa, accompagnando a casa le ragazze la sera tardi, facendo da guida ai turisti e guardando i film al cinema come uno spettatore qualsiasi. Adottato dal comune e ribattezzato Italo Barocco, in onore del barocco siciliano, il cane ha ora attirato l’attenzione del cinema. 

A trasformare la storia di Italo in un film è la regista siciliana Alessia Scarso, qui al suo esordio, che ha portato sullo schermo i colori caldi della sua terra, aiutata da un cast composto soprattutto da bambini, dal cane-attore Tomak, addestrato da Massimo Parla, e dagli interpreti Marco Bocci, amato dal pubblico soprattutto grazie al ruolo di Domenico Calcaterra in Squadra Antimafia – Palermo oggi, al suo primo ruolo da protagonista in un film, Barbara Tabita e Elena Radonicich. Bocci è Antonio Blanco, sindaco di Scicli rimasto vedovo, che deve affrontare in campagna elettorale la candidata Luisa Nigro (Tabita), vistosa nei modi e negli abiti, dovendo contemporaneamente gestire la malinconia del figlio Meno e la sua attrazione per la nuova insegnante della scuola elementare, Elena (Radonicich). 

Abbiamo parlato del film con la regista Alessia Scarso e con i protagonisti Marco Bocci, Barbara Tabita e Elena Radonicich.





Pubblicato su Ciak Magazine.

mercoledì 14 gennaio 2015

“HUNGRY HEARTS”: VIDEOINTERVISTA A SAVERIO COSTANZO E ALBA ROHRWACHER

Abbiamo incontrato il regista Saverio Costanzo e Alba Rohrwacher, protagonista del film Hungry Hearts, tratto dal romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso, che esce al cinema dal 15 gennaio già forte di due premi importanti: alla scorsa Mostra di Venezia sia Alba che il co-protagonista maschile Adam Driver hanno vinto la Coppa Volpi come migliori interpreti


Mina (Alba Rohrwacher) e Jude (Adam Driver) si incontrano a New York: protagonisti di un amore tenero e totalizzante, i due si sposano e hanno presto un figlio. Quello che doveva essere un lieto evento si trasforma ben presto in un incubo: Mina, vegana ossessionata dalla purezza e scettica verso la medicina tradizionale, crede che il suo bambino sia speciale e non vada contaminato con l’orrore della carne. La donna alimenta il piccolo solo con cibi di derivazione non animale, causandogli un ritardo nella crescita. Sconvolto dal cambiamento della moglie, Jude si trova nella difficile situazione di dover scegliere tra suo figlio e la donna che ama. 

Amore eccessivo, solitudine, ossessione, inadeguatezza di fronte a un compito difficile e delicato quale è essere genitore: al suo quarto film Saverio Costanzo decide di mettere in scena una storia complessa pronta a far sorgere diversi interrogativi nello spettatore. Per raccontare l’evoluzione di un amore che diventa ossessione, il regista sperimenta con le immagini, usando grandangoli e obiettivi particolari, che deformano i suoi protagonisti col procedere del loro isolamento psicologico. Alba Rohrwacher si lascia plasmare e mutare dall’occhio di Costanzo, con cui è alla seconda collaborazione dopo La solitudine dei numeri primi

Abbiamo parlato del film proprio con Costanzo e Rohrwacher, arrivati alla Casa del Cinema di Roma per presentare il film, nelle sale dal prossimo 15 gennaio.





Pubblicato su Ciak Magazine.

martedì 23 dicembre 2014

“UN NATALE STUPEFACENTE”: VIDEOINTERVISTA A LILLO E GREG

Abbiamo incontrato i protagonisti di Un Natale Stupefacente, 31esimo film di Natale prodotto dalla Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, Lillo e Greg e Ambra Angiolini, insieme al regista e sceneggiatore Volfango De Biasi. 

Fare un cinepanettone diverso è possibile? Il duo comico formato da Lillo e Greg e il regista e sceneggiatore Volfango De Biasi, che hanno già lavorato insieme agli ultimi due “cinepanettoni classici”, ovvero Colpi di Fulmine e Colpi di Fortuna, pensano di sì e questo Natale, che segna il 31esimo anniversario dei film delle feste prodotti dalla Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, si sono imbarcati in una sfida: rinnovare un genere amato quanto criticato. Abbandonata la struttura a episodi e le gag più “corporali” dell’era Boldi e De Sica, il trio si è concentrato su una storia fluida, in cui i diversi protagonisti interagiscono costantemente l’un l’altro.





Pubblicato su Ciak Magazine.

martedì 9 dicembre 2014

Mommy – And after all you're my wonderwall

Al suo quinto film il regista 25enne Xavier Dolan firma la sua opera più matura e ambiziosa, in bilico tra emozioni sfrenate e ricercatezza formale, animale dal fascino multiforme e dalla carica seduttiva inarrestabile, vincitrice del Premio della giuria al Festival di Cannes 2014




Diane Després (Anne Dorval) è una mamma single sboccata e irascibile, rimasta sola a occuparsi del figlio quindicenne Steve (Antoine-Olivier Pilon), violento e irrefrenabile come lei ma a livelli patologici. Continuamente in conflitto con gli altri e le istituzioni, Steve non ha amici al di fuori di sua madre, cui è legato da un complicato rapporto di amore e odio, che sfocia spesso in liti furibonde ma che ogni tanto è illuminato da disperati gesti d'affetto. Tra loro si inserisce la timida e balbuziente nuova vicina, Kyla (Suzanne Clément), paziente e silenziosa, il completo opposto di Diane e Steve: grazie a questo terzo elemento, il mondo di madre e figlio sembra trovare un insperato equilibrio. 

A soli 25 anni, il regista canadese Xavier Dolan è una delle voci più energiche e particolari del cinema contemporaneo: autore autodidatta e talento poliedrico (è sceneggiatore, regista, montatore, compositore, costumista e spesso anche attore dei suoi film), Dolan ha una carica vitale quasi animalesca e sovversiva che traspare da ogni sua pellicola, a cominciare da J'ai tué ma mère, folgorante esordio firmato ad appena 20 anni. Come nel primo film, in Mommy, sua quinta pellicola vincitrice del Premio della giuria al Festival di Cannes 2014, Dolan si concentra sul rapporto tra una madre e un figlio, allo stesso tempo soffocati e protetti dal reciproco amore: schiacciati e dimenticati da una società che li tiene ai margini, Diane e Steve vivono in un mondo parallelo in cui nessuno prima di Kyla era riuscito a entrare. Per dare la giusta forma alla sua storia, Dolan sceglie di comprimere i personaggi in un formato insolito, un 1:1 che intrappola i suoi protagonisti come pesci in un acquario, rabbiosi per la mancanza di spazio e ossigeno e continuamente sul punto di esplodere. 

Come il suo protagonista, anche il regista è dotato di una carica vitale e una forza elettrica che si fonde con la sua opera: formatosi da solo, cresciuto in un ambiente culturalmente povero e ispirato dai film della sua infanzia, tra cui ricorda spesso Titanic, Batman – Il ritorno e Mamma ho perso l'aereo, Dolan è un talento puro, che si è accresciuto con la forza della sua voglia di fare e sperimentare, a volte incosciente e forse anche compiaciuta, ma di innegabile carica trascinante. Sincero e generoso dietro e davanti la macchina da presa, Dolan non ha paura di piegare il mezzo alle sue regole, creando un cinema totale cui imprime in ogni aspetto la sua personalità, con una decisione e una naturalezza che sorprendono. 

Bipolare e folle nei temi e nello stile, il regista canadese in Mommy riesce a tenere a bada il suo furore cinematografico senza snaturarlo, firmando una delle sue opere più mature e affascinanti, in grado di spiazzare lo spettatore grazie all'uso delle musiche (straordinario il momento in cui il protagonista ascolta "Wonderwall" degli Oasis e la scena finale sulle note di Lana Del Rey) e a dialoghi frenetici: il regista mette una mano davanti alla bocca del pubblico e allo stesso tempo lo bacia, proprio come il protagonista del suo film, in un gioco di forza tra il sentimento più sfrenato e la ricerca della forma perfetta. 

Primo film del regista distribuito in Italia grazie a Good Films, Mommy è una pellicola sorprendente da seguire e vivere fino all'ultimo tragicomico minuto, così come la carriera del suo giovane regista, che speriamo riesca a domare con sempre maggior maestria il suo talento senza snaturarlo.

Antoine-Olivier Pilon


La citazione: "La vita con Steve è come un salto nel vuoto: non sai mai se cadrai in piedi o sbatterai la faccia a terra"

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥♥1/2

Uscita italiana: 4 dicembre 2014


Titolo originale: Mommy
Regia: Xavier Dolan
Anno: 2014
Cast: Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément
Colore: colre
Durata: 134 minuti
Genere: drammatico
Sceneggiatura: Xavier Dolan
Fotografia: André Turpin
Montaggio: Xavier Dolan
Musica: Eduardo Noya
Paese di produzione: Canada
Casa di produzione: Metafilms
Distribuzione italiana: Good Films





Pubblicato su XL.


Magic in the Moonlight – A kind of magic

Dopo Midnight in Paris, Woody Allen torna nella Francia degli anni '20, imbastendo un racconto formato dagli elementi migliori delle sue commedie più riuscite degli ultimi dieci anni, interrogandosi ancora una volta sull'amore e sulle illusioni, e infondendo alla pellicola una luce e dei colori mai visti prima nella sua opera 




Berlino, 1928, spettacolo di magia: il prestigiatore Wei Ling Soo riesce a far sparire un elefante sulle note di Stravinsky, lasciando il pubblico stupefatto. Nonostante la sincera meraviglia degli spettatori, nei suoi prodigi non c'è nulla di vero, il mago non è nemmeno un vero cinese: sotto i baffi finti di Wei si cela infatti l'inglesissimo Stanley (Colin Firth), misantropo in grado di creare illusioni meravigliose. Chiamato dal collega e amico Howard (Simon McBurney) a smascherare Sophie (Emma Stone), una sedicente medium che ha stregato il rampollo della ricca famiglia Catledge, il disincantato Stanley si reca nel sud della Francia, intento a provare a tutti, e soprattutto a se stesso, che non c'è altro a questo mondo se non la realtà materiale e i trucchi che da secoli l'uomo mette in pratica per convincersi che non sia così. Le certezze del mago vacillano però quando si trova di fronte il sorriso della giovane Sophie, sensitiva che sembra leggergli nella mente soprattutto grazie ai suoi occhi luminosi. 

Tornato in Francia a tre anni di distanza da Midnight in Paris, Woody Allen continua a farsi ispirare dall'Europa - anche se, come ha dimostrato la precedente pellicola Blue Jasmine, la musa che lo ispira meglio continua a essere New York - e dopo aver celebrato Londra, Barcellona, Parigi e Roma, si concede ora un lussuoso soggiorno sulle spiagge della Costa Azzurra, imbastendo un racconto che recupera gli elementi migliori delle sue commedie dell'ultimo decennio. In Magic in the Moonlight c'è infatti la Francia degli anni '20, con il jazz e gli abiti per ballare il charleston, come in Midnight in Paris, al centro di tutto c'è la magia come in Scoop e come in Basta che funzioni i protagonisti sono una classica “strana coppia”, formata da un misantropo disilluso e nichilista e una giovane ragazza che mette in discussione la sua intera esistenza. 

Protagonisti della pellicola sono il sempre sofisticato ed elegante Colin Firth, irresistibile e cinico al punto da essere insopportabile e allo stesso tempo esilarante, ed Emma Stone, sirena che offusca la razionalità del primo: tra corse in costiera e dissertazioni sull'amore, i due instaurano un balletto verbale a tempo di swing, che tocca ancora una volta il tema caro ad Allen della felicità vista come trucco con cui beffare la morte e il nulla, secondo cui qualsiasi attimo di piacere e gioia va afferrato con la consapevolezza che è sì un'illusione, ma che, se ci rende felici, “basta che funzioni”. 

Al di là della trama simile, e affrontata forse con maggiore brillantezza in passato, ad altre pellicole del regista newyorchese, resa comunque piacevole grazie ai due ottimi protagonisti, la vera bellezza e novità di Magic in the Moonlight sta nella luce e nei colori: quasi mai in un film di Allen c'era stata una ricchezza tale di sfumature e luminosità, abbagliante di giorno ed effettivamente magica al chiaro di luna. 

La felicità sarà anche un'illusione e il mondo un posto infelice e ingannevole, ma di fronte a tanta luminosa bellezza non si può restare indifferenti.

Colin Firth ed Emma Stone


La citazione: "Tu sei la prova che c'è di più: più mistero, più magia"

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥

Uscita italiana: 4 dicembre 2014


Titolo originale: Magic in the Moonlight
Regia: Woody Allen
Anno: 2014
Cast: Colin Firth, Emma Stone, Eileen Atkins, Simon McBurney, Jacki Weaver, Marcia Gay Harden, Hamish Linklater
Colore: colore
Durata: 97 minuti
Genere: commedia
Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Darius Khondji
Montaggio: Alisa Lepselter
Musica: autori vari
Paese di produzione: USA
Casa di produzione: Perdido Productions
Distribuzione italiana: Warner Bros.





Pubblicato su XL.


venerdì 28 novembre 2014

Star Wars: The Force Awakens teaser trailer, che il fomento sia con te



Finalmente è uscito: più atteso del terzo segreto di Fatima, più bramato dell' Oreo gigante di Tesoro, mi sono ristretti i ragazzi (perché voi non sbavavate quando i ragazzini affondavano la faccia in quella crema pannosa?!): il teaser trailer di Star Wars VII: The Force Awakens è stato lanciato nella rete, quello vero, non il (seppur simpatico) fake con Yoda.

Direte voi: che cosa potrà mai esserci in 70 secondi di trailer di così sconvolgente?
Beh facile: tutto e niente, bagliori che fanno intravedere forse il film definitivo della storia del cinema e allo stesso tempo il mistero più assoluto.

Facciamo un passo indietro.

J.J. Abrams, eroe assoluto da queste parti per aver creato quelle perle (sì perle!) di Lost, Fringe e Super8, autore a volte geniale e mago del marketing, erede designato da Spielberg in persona per tutto ciò che riguarda il sognare in grande sullo schermo, era stato accusato di essere una scelta tremenda per i nuovi film ambientati in una galassia lontana.
Soprannominato malevolmente da alcuni (senza cuore, ingrati, miscredenti) "Jar Jar Abrams", insulto massimo, Abrams non ha sentito nessuno ed è andato avanti col suo lavoro. Anche quando Harrison "Han Solo" Ford si rompeva un femore sul suo set.

Dopo aver rilanciato al cinema Star Trek, Abrams si appresta a diventare lo starman ufficiale del cinema contemporaneo: e finalmente è arrivato un assaggio del suo lavoro.

Scritto da Abrams insieme a Lawrence Kasdan, autore di L'impero colpisce ancora, ovvero il capitolo migliore della saga, almeno fino a ora, Star Wars:The Force Awakens è ambientato 30 anni dopo i fatti di Il ritorno dello Jedi e vede per alla produzione per la prima volta insieme la Lucasfilm e la Disney. Un binomio che fa paura a molti.

Ma passiamo al trailer: cielo azzurro e sabbia, siamo su Tatooine e uno stormtrooper si leva il casco mentre una voce profonda dice solenne "C'è stato un risveglio. L'hai sentito?". 
Già con questi pochi secondi si è scatenato un polverone: la voce sembra quella di Benedict Cumberbatch e si è creato il panico. Dovrebbe essere stato confermato che sia in realtà di Andy Serkis ma non si sa mai, dopo averci lavorato in Star Trek Into Darkeness Abrams potrebbe farci il sorpresone.
Secondo hot topic: lo stormtrooper è di colore. No, non è (almeno spero) un commento razzista, ma la prova che nel nuovo film la fanteria imperiale non è formata da cloni.




Da qui si succedono rapidamente una serie di immagini  epiche:


1) IL ROBOT A PALLA ROTANTE

Ha la testa di R2D2 e il corpo da super tele. Già lo amo.




2) RAGAZZA SU UNA MOTO TOSTA-PANE

Giovane, carina e molto somigliante a Natalie Portman (sembrerebbe Daisy Ridley): mi sto già facendo pippe mentali assurde o potrebbe essere discendente di Skywalker e forse la nuova jedi della saga? Comunque la moto volante tostapane è fichissima.




3) UN SIMIL DARTH CON SPADA A CROCE (!!!!!)

Il momento in cui tutti, nel bene e nel male, hanno avuto un colpo al cuore: la spada laser, una delle invenzioni più geniali non solo del cinema ma della storia dell'umanità tutta, il principale motivo di successo e amore incondizionato di questa saga, poche storie è così, in questo settimo film si è evoluta, con un'impugnatura anche questa fatta di laser. Sistema per evitare la mozzatura delle mani (magari brevettata proprio da Luke in persona)? Bestemmia per i puristi, bestemmia pure per i cattolici che sicuramente avranno da ridire sul fatto che sia infuocata e sembri una croce rovesciata (già me li vedo: Star Wars film di Satana!)? Dite quello che vi pare ma è talmente tamarra che è già
amore.




4) IL MILLENNIUM FALCON

E questo invece è il momento in cui è scesa una lacrima.





In pochissimi secondi quel sadico di Abrams ci ha fatto intuire un film maestoso, con effetti speciali pazzeschi e pieno di nuove trovate, che cercano di sviluppare la saga ma allo stesso tempo partono dai vecchi film. Allo stesso tempo non si capisce nulla: insomma, in poco più di un minuto questo teaser ha polverizzato tutte le prossime uscite cinematografiche future da qui a dicembre 2015, data di uscita del film. Ora troppo, davvero troppo lontana.

L'avrò visto già 10 volte: fino a Natale 2015 sarà davvero dura.


Ecco il trailer in inglese (con la voce misteriosa):




E la versione in italiano:






lunedì 24 novembre 2014

Hunger Games: Il canto della rivolta parte 1 – Fuori dall’arena la rivoluzione è mediatica

Arriva in sala il terzo capitolo di Hunger Games, tratto dall’omonima saga letteraria di Suzanne Collins, prima parte dell’ultimo tomo, diviso in due per il cinema, che fa da prologo al gran finale previsto per il prossimo anno 



Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence) sta alle eroine delle saghe cinematografiche così come Mulan alle principesse Disney: la giovane abitante di Panem, letale con l’arco e divisa tra l’amore di Gale (Liam Hemsworth) e quello di Peeta (Josh Hutcherson), rappresenta un punto di svolta nei blockbuster destinati ai più giovani, proprio come la ragazza cinese che, osando sfidare perfino gli Unni e l’Imperatore, salva sia il suo popolo che l’uomo che ama, riscattando decine di principesse che prima di lei si erano limitate a sposarsi e a farsi soccorrere dal principe azzurro. Contrariamente a quanto accaduto a Mulan però, Katniss non è costretta a fingersi uomo, anzi, usa il suo aspetto femminile e alcuni degli artifici tipici del gentil sesso, come il trucco e i vestiti, quali mezzi da usare nella sua battaglia, dapprima personale e poi universale, al pari delle frecce, trasformandosi così in un personaggio a tutto tondo che non rientra né nello stereotipo della “donzella indifesa e innamorata”, né in quello del “maschiaccio”. Una figura praticamente inedita in questo genere di film, fatto che trasforma la protagonista di Hunger Games in una figura di rottura destinata a diventare un’icona. 

Grazie a questo aspetto, e a un’idea di base che unisce caratteristiche dell’antica Roma alle strategie di comunicazione tipiche del nostro tempo, la saga, tratta dai romanzi di Suzanne Collins, è sicuramente uno dei franchise per ragazzi più interessanti degli ultimi anni, anche grazie alla sua protagonista, Jennifer Lawrence, per una volta non emaciata e dai lineamenti delicati come altre eroine, ma con un physique du role adatto al ruolo che interpreta. 

Dopo due film incentrati sui giochi, in cui i tributi dei vari distretti devono uccidersi tra loro, il terzo capitolo di Hunger Games si affaccia fuori dall’arena e affronta una guerra più sottile e subdola: lo scontro tra i ribelli simboleggiati da Katniss e il presidente Snow (Donald Sutherland) è una lotta che va avanti a colpi di spot e proclami mediatici, in cui le crudeli azioni militari sono portate avanti in funzione di ottenere video con cui plasmare l’opinione delle masse, pronte a credere al testimonial più convincente piuttosto che ai fatti. 

In Il canto della rivolta – parte 1, l’ex ragazza di fuoco è chiamata a diventare il simbolo della ribellione contro Capitol City, centro di potere di Panem: a puntare tutto su Katniss è Plutarch Heavensbee (Philip Seymour Hoffman), braccio destro di Alma Coin (Julianne Moore), presidente del tredicesimo distretto e capo della rivolta contro Snow. Coin fa di Katniss il volto della lotta contro il potere, ingaggiando appositamente un team di registi e operatori incaricati di girare dei video da usare come scintille per innescare la reazione a catena che deve portare al rovescio del governo di Capitol City. Divenuta così “la ghiandaia imitatrice”, Katniss accetta di combattere ma allo stesso tempo ha un pensiero che la assilla: la salvezza di Peeta, prigioniero di Snow divenuto la sua arma di propaganda anti-ribelli. 

I temi affrontati in questo terzo capitolo fanno fare un balzo in avanti alla saga, riuscendo a trasformare Hunger Games in qualcosa di più di una semplice versione americana del fumetto giapponese Battle Royale, offrendo spunti interessanti come l’importanza sempre più cruciale del marketing e della comunicazione, della potenza enorme che può avere un simbolo, e costruendo anche un discorso sul cinema stesso, mezzo in grado di creare storie ed eroi grazie all’uso delle immagini (la stessa Katniss viene ripresa, a volte addirittura davanti a un green screen e altre sul campo, creando un curioso effetto meta-cinematografico). Il canto della rivolta parte 1 è dunque, fino a ora, il capitolo più maturo e dark della saga, ma, nonostante i diversi aspetti positivi, deve piegarsi a una forza più grande: gli interessi economici. Seguendo la scia di Warner Bros. e della Summit Entertainment, che hanno sdoppiato in due i finali di Harry Potter e Twilight, anche la Lions Gate ha deciso di dividere in due il terzo e ultimo capitolo di Hunger Games, andando incontro a un allungamento eccessivo e sproporzionato della storia: questa prima parte è un preludio dilatato che invoglia lo spettatore ma che non decolla mai, preparando il terreno alla conclusione in cui, si presume, esploderà davvero tutto il potenziale della saga.

In questo terzo capitolo tutto è sacrificato in favore dei tormenti interiori della protagonista, divisa non solo tra i suoi due amati, Peeta e Gale, ma anche nel suo ruolo, non abbracciando in pieno l’incarico di “simbolo” e anteponendo spesso i suoi sentimenti personali al bene della comunità. In questo modo diversi personaggi sono sacrificati, Peeta e Gale in primis, ma anche Finnick (Sam Claflin) e gli stessi Plutarch, Coin e Snow, relegati a poche scene. Tutto il peso della pellicola ricade dunque sulle spalle larghe della protagonista, che, chiamata ad affrontare diverse scene drammatiche, risulta meno convincente rispetto alla prova data nelle scene d’azione viste nei capitoli precedenti, peccando spesso di recitazione esagerata e sopra le righe. L’overacting della Lawrence è sottolineato maggiormente quando si trova a recitare di fronte ad artisti raffinati come Julianne Moore, perfetta anche di fronte a un microfono, Philip Seymour Hoffman, in una delle sue ultime prove, o anche Elizabeth Banks, che fornisce gli unici momenti di humor del film, e Woody Harrelson, che ha pochissime battute ma quando prende la parola ruba la scena a chiunque. 

Questo “promo”del finale sembra dunque un girare a vuoto, che cerca in continuazione di mettere in scena il dramma senza mai emozionare realmente e che diventa davvero interessante proprio negli ultimi minuti, lasciando con la sgradevole sensazione di aver assistito a un qualcosa di semplice “passaggio”. 

Aspettiamo dunque il prossimo anno in cui, ed è strano dirlo, speriamo di “bruciare” davvero insieme ai ribelli di Panem e alla loro ghiandaia imitatrice.

Jennifer Lawrence e Julianne Moore


La citazione: "Se noi bruciamo, voi bruciate con noi"

Hearting/Cuorometro: ♥♥1/2

Uscita italiana: 20 novembre 2014


Titolo originale: The Hunger Games: Mockingjay - Part 1
Regia: Francis Lawrence
Anno: 2014
Cast: Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman, Donald Sutherland, Woody Harrelson, Elizabeth Banks, Jeffrey Wright, Stanley Tucci, Sam Claflin, Natalie Dormer, Willow Shields
Colore: colore
Durata: 123 minuti
Genere: avventura
Sceneggiatura: Danny Strong, Peter Craig
Fotografia: Jo Willems
Montaggio: Alan Edward Bell, Mark Yoshikawa
Musica: James Newton Howard
Paese di produzione: USA
Casa di produzione: Lions Gate
Distribuzione italiana: Universal Pictures




Pubblicato XL.


domenica 16 novembre 2014

Frank

La pellicola di Lenny Abrahamson, liberamente ispirata alla vera storia di Chris Sievey, comico inglese creatore dell'alter ego Frank Sidebottom, è un viaggio fisico e spirituale attraverso i meandri insondabili della creazione artistica, che spesso si accompagna a esperienze traumatiche e follia, incarnate nel volto impassibile e grottesco di Frank, cantante e artista puro e fragile, che indossa una maschera per isolarsi dal mondo, coprendo così il volto bellissimo di Michael Fassbender, qui a una delle prove più coraggiose della sua carriera 




Contrariamente a quanto la società contemporanea voglia farci credere, essere un artista, un vero artista, e non un semplice personaggio costruito a tavolino, non è una cosa che si può decidere così su due piedi: lo scopre a sue spese Jon (Domnhall Gleeson), aspirante musicista che cerca con ostinazione una sua voce originale per scrivere canzoni, ma che non riesce a trovare nulla che lo ispiri. Diviso tra un grigio lavoro in ufficio e i suoi sogni di gloria repressi, Jon ha un colpo di fortuna inaspettato: è chiamato a sostituire il tastierista dei Soronprfbs, band sperimentale dal nome impronunciabile, guidati da Frank (Michael Fassbender), musicista che si lascia ispirare da qualsiasi cosa, perfino un filo tirato della moquette, che vive le sette note come un flusso continuo di coscienza, in cui può perdersi e ritrovarsi ogni volta, e che ha un rapporto conflittuale con il mondo esterno: rinchiuso per anni in un istituto psichiatrico, Frank indossa un'enorme testa di resina sul volto, che non toglie nemmeno per mangiare o lavarsi. 

Segregato per più di un anno in una baita insieme alla band, tra cui spicca la passionale e pericolosa Clara (Maggie Gyllenhaal), artista pura e dura incapace di scendere a compromessi quando si tratta di musica, Jon si lascia guidare dai suoi strampalati e geniali compagni di viaggio nel mondo dell'arte più intima e istintiva, quella che nasce a causa dell'esigenza quasi fisiologica di esprimersi e di dare forma a sentimenti ed emozioni che sembrano sorgere spontaneamente, senza il bisogno di avere necessariamente un pubblico, un mondo e un modo di sentire cui il ragazzo, privo di talento, non appartiene e che, una volta compresa l'amara verità, cerca di trasformare in successo personale, cavalcando l'onda della curiosità morbosa della società moderna per tutto ciò che è singolare e diverso. Durante il suo anno formativo, Jon riprende la band, e in particolare Frank, trasformandola in un fenomeno di internet postando foto e video del cantante durante i suoi eccessi creativi, guadagnandosi così la possibilità di suonare a un importante festival musicale. 

Commedia brillante che si trasforma pian piano in un dramma amaro, Frank, pellicola dell'irlandese Lenny Abrahamson, liberamente ispirata alla vita del comico Chris Sievey, creatore del suo alter ego musicale Frank Sidebottom, che indossava davvero una testa di cartapesta come quella del film, è una riflessione originale sull'arte e sulla sua origine: sempre più difficile da trovare oggi, in un mondo in cui le immagini e i tweet si sono sostituiti alle parole e alle note, l'arte è vista nel film come un dono, e allo stesso tempo un peso, che viene da un'altra dimensione, diversa da quella dell'immagine e del desiderio di successo. Frank e la sua band sono persone che hanno subito esperienze traumatiche, psicologicamente fragili e disconnesse dal senso comune, a cui occhi sembrano quasi dei bambini intenti a giocare con cose più grandi di loro. Paradossalmente, negli occhi fissi di Frank, c'è però molta più umanità che non in quelli di Jon, spugna che assorbe quanto più possibile dalla sua talentuosa guida e che non restituisce nulla se non un'immagine che non rispecchia la vera sensibilità del musicista, di cui il pubblico ama la stranezza senza aver mai sentito nemmeno una sua nota. 

Il difficile compito di parlare del talento come di una malattia, che consuma ed eleva allo stesso tempo il suo portatore, è affidato sulle spalle di Michael Fassbender, interprete ormai lanciatissimo nello star system hollywoodiano, che qui sceglie di rinunciare al suo volto da copertina per mettersi alla prova in un ruolo difficilissimo, in cui la fisicità e la capacità di emozionare con la voce sono le uniche armi a disposizione. Grazie a un'interpretazione incredibile, in cui ogni gesto ha un significato ben preciso e la presenza fisica diventa vera e propria mimica espressiva, l'attore irlandese fornisce una prova brillante, riuscendo a infondere un'umanità struggente a una maschera immobile. A fare da contraltare a Fassbender è Domnhall Gleeson, figlio d'arte di Brendan, per una volta all'altezza del genitore, che, dopo le prove convincenti in Il Grinta e soprattutto in Questione di tempo, si conferma un talento poliedrico, in grado di giocare brillantemente con toni comici e drammatici e che per questo rende più amara la parabola del suo personaggio, che, più o meno volontariamente, cerca di mercificare e normalizzare qualcosa di unico e bello, che nasce da esperienze, incomprensibili per chi non le prova, come la malattia mentale e la sofferenza interiore. 

Se dovessimo fornire una recensione del film utilizzando soltanto la descrizione della nostra espressione facciale, proprio come fa Frank nella pellicola, potremmo dire che è un sorriso a labbra chiuse seguito da una lacrima liberatoria.

Michael Fassbender


La citazione: "Sarebbe d'aiuto se comunicassi le mie espressioni facciali? Sorriso cordiale "

Hearting/Cuorometro: ♥♥♥1/2

Uscita italiana: 13 novembre 2014


Titolo originale: Frank
Regia: Lenny Abrahamson
Anno: 2014
Cast: Michael Fassbender, Domnhall Gleeson, Maggie Gyllenhaal, Scoot McNairy
Colore: colore
Durata: 95 minuti
Genere: commedia drammatica
Sceneggiatura: Jon Ronson, Peter Straughan
Fotografia: James Mather
Montaggio: Nathan Nugent
Musica: Stephen Rennicks
Paese di produzione: Regno Unito, Irlanda
Casa di produzione: Film4
Distribuzione italiana: I Wonder Pictures




Pubblicato su XL.
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