New York, 1983: un impiegato delle poste uccide a sangue freddo un uomo dall’accento italiano.
Nel suo appartamento viene ritrovata la testa di un’antica statua.
Perché un reduce di guerra prossimo alla pensione dovrebbe compiere un gesto apparentemente così insensato? Con un salto temporale di quarant’anni scopriamo che la spiegazione va cercata in un episodio della Seconda Guerra Mondiale: nel 1944 a Sant’ Anna di Stazzema, i nazisti uccidono 560 civili. Nei giorni in cui la strage ha luogo, le vite di partigiani, nazisti e di un gruppo di soldati americani di colore appartenenti alla 92° divisione di fanteria, chiamata “Buffalo”, si intrecciano.
Il soldato Train (Omar Benson Miller), ragazzone enorme e dall’animo semplice, ritrova la testa di una statua e salva un bambino. Train si convince che la statua sia un portafortuna e il bambino un messaggero del Signore. Insieme a tre suoi compagni trova rifugio in un paesino della Versilia, dove partigiani e nazisti si combattono.
Spike Lee porta sullo schermo il romanzo di James McBride e confeziona un film a strati.
In primo luogo c’è l’episodio storico: episodio storico che però è solo un pretesto per raccontare una storia romanzata e totalmente inventata. Lo stratagemma narrativo di McBride di trovare la spiegazione della strage in un presunto tradimento di uno dei partigiani è infatti pura finzione e ha destato non poche polemiche, soprattutto in Italia, facendo guadagnare al libro e al film l’accusa di revisionismo storico. In realtà il centro d’interesse della pellicola non è la strage, ma le vicende dei soldati di colore mandati a morire come carne da macello dai comandanti bianchi razzisti.
Le truppe di soldati di colore che parteciparono alla Seconda Guerra Mondiale non sono quasi mai ricordate e Lee ha cercato di ridare dignità a queste persone che sono morte per una patria che non le accettava.
E’ anche un film sulla fede: soldati, partigiani, civili e nazisti nei momenti di maggiore disperazione si affidano tutti a Dio e la fede fa da filo conduttore tra le storie dei vari personaggi.
Il problema della pellicola è però quello di voler affrontare tanti, troppi argomenti, senza approfondirne realmente nessuno: ecco quindi la superficialità nell’analizzare l’episodio storico e l’eccessiva retorica nel trattare le vicende dei “Buffalo soldiers”. Guardando il film si ha infatti la sensazione di doversi commuovere per forza di fronte alle storie di questi personaggi, impressione acuita da una colonna sonora troppo ingombrante, con il risultato di far perdere forza alla storia.
Non mancano comunque sequenze ben girate e un cast particolarmente ispirato: tra tutti risalta la figura del partigiano interpretato da Pierfrancesco Favino, “la grande farfalla”, combattente ma in primo luogo uomo che si interroga se sia giusto o no uccidere a prescindere dal colore della divisa. E proprio qui sta il problema: come valore assoluto questo principio è sacrosanto, ma nell’ambito della Seconda Guerra Mondiale dove i nazisti elaborarono le leggi razziali e diedero vita ai campi di concentramento questo discorso non ha senso: certo che c’è una differenza tra partigiani e nazisti, affermare il contrario vuol dire non conoscere a fondo la storia.
Anche dal punto di vista del ritmo il film a lungo andare perde mordente, concludendosi con un finale che risulta stonato e forzato.
Una pellicola quindi riuscita soltanto a metà e che sicuramente continuerà a far discutere.
Nel suo appartamento viene ritrovata la testa di un’antica statua.
Perché un reduce di guerra prossimo alla pensione dovrebbe compiere un gesto apparentemente così insensato? Con un salto temporale di quarant’anni scopriamo che la spiegazione va cercata in un episodio della Seconda Guerra Mondiale: nel 1944 a Sant’ Anna di Stazzema, i nazisti uccidono 560 civili. Nei giorni in cui la strage ha luogo, le vite di partigiani, nazisti e di un gruppo di soldati americani di colore appartenenti alla 92° divisione di fanteria, chiamata “Buffalo”, si intrecciano.
Il soldato Train (Omar Benson Miller), ragazzone enorme e dall’animo semplice, ritrova la testa di una statua e salva un bambino. Train si convince che la statua sia un portafortuna e il bambino un messaggero del Signore. Insieme a tre suoi compagni trova rifugio in un paesino della Versilia, dove partigiani e nazisti si combattono.
Spike Lee porta sullo schermo il romanzo di James McBride e confeziona un film a strati.
In primo luogo c’è l’episodio storico: episodio storico che però è solo un pretesto per raccontare una storia romanzata e totalmente inventata. Lo stratagemma narrativo di McBride di trovare la spiegazione della strage in un presunto tradimento di uno dei partigiani è infatti pura finzione e ha destato non poche polemiche, soprattutto in Italia, facendo guadagnare al libro e al film l’accusa di revisionismo storico. In realtà il centro d’interesse della pellicola non è la strage, ma le vicende dei soldati di colore mandati a morire come carne da macello dai comandanti bianchi razzisti.
Le truppe di soldati di colore che parteciparono alla Seconda Guerra Mondiale non sono quasi mai ricordate e Lee ha cercato di ridare dignità a queste persone che sono morte per una patria che non le accettava.
E’ anche un film sulla fede: soldati, partigiani, civili e nazisti nei momenti di maggiore disperazione si affidano tutti a Dio e la fede fa da filo conduttore tra le storie dei vari personaggi.
Il problema della pellicola è però quello di voler affrontare tanti, troppi argomenti, senza approfondirne realmente nessuno: ecco quindi la superficialità nell’analizzare l’episodio storico e l’eccessiva retorica nel trattare le vicende dei “Buffalo soldiers”. Guardando il film si ha infatti la sensazione di doversi commuovere per forza di fronte alle storie di questi personaggi, impressione acuita da una colonna sonora troppo ingombrante, con il risultato di far perdere forza alla storia.
Non mancano comunque sequenze ben girate e un cast particolarmente ispirato: tra tutti risalta la figura del partigiano interpretato da Pierfrancesco Favino, “la grande farfalla”, combattente ma in primo luogo uomo che si interroga se sia giusto o no uccidere a prescindere dal colore della divisa. E proprio qui sta il problema: come valore assoluto questo principio è sacrosanto, ma nell’ambito della Seconda Guerra Mondiale dove i nazisti elaborarono le leggi razziali e diedero vita ai campi di concentramento questo discorso non ha senso: certo che c’è una differenza tra partigiani e nazisti, affermare il contrario vuol dire non conoscere a fondo la storia.
Anche dal punto di vista del ritmo il film a lungo andare perde mordente, concludendosi con un finale che risulta stonato e forzato.
Una pellicola quindi riuscita soltanto a metà e che sicuramente continuerà a far discutere.
ti ho già detto che ne pensavo (del film e della recensione)
RispondiEliminaNon ho ancora letto di nessuno entusiasta di questo film, la cosa mi dà modo di pensare.
RispondiEliminaIl film fa e farà sicuramente discutere per i "fatti" raccontati in modo approssimativo se non completamente distorto. Cimunque mi incuriosisce e spero di poterlo vedere.
RispondiEliminawhere is babylon's review?
RispondiEliminanon mi attira neanche un po', ed a quanto leggo continuerò a non perdermi un granchè non vedendolo.
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