L’attore, ricevendo il premio Truffaut al Giffoni Film Festival, ha parlato del suo rapporto con Hollywood, dell’importanza di raggiungere un livello più profondo di coscienza e di come la tv oggi abbia maggiore peso del cinema
Jeans, camicia candida come la chioma e numerosi bracciali al polso lo splendido 65enne Richard Gere, accompagnato dal figlio Homer, è arrivato al Giffoni Film Festival per ritirare il Premio Truffaut, felice di aver avuto la possibilità di tornare in Italia, paese che ama: “Sono felice e onorato di essere qui – ha detto Gere – Colgo ogni occasione per venire in Italia: qui ho tanti amici e anche mio figlio, che è qui con me oggi, adora venire in questo paese. Amiamo la costiera Amalfitana e siamo contenti di essere per la prima volta al Giffoni”.
Il divo americano ha sfatato il mito di Hollywood come di un luogo orribile con queste parole: “Ogni volta che vengo in Europa noto come tutti abbiano l’idea di Hollywood come se fosse questo mostro vorace. In realtà è solo un posto dove si fanno i film: non ha niente di particolare. Ognuno, anche chi lavora nel cinema, ha i suoi demoni e non hanno a che fare con Hollywood”, ha avuto un pensiero per tutti i ragazzi accorsi per vederlo: “Sono commosso da questi ragazzi che hanno avuto tanta motivazione nel venire qui e che si sono impegnati nello scrivere e nel proporre idee: credo che siano straordinari. Qui si incontrano tutti insieme a prescindere dalla loro provenienza e vengono a condividere un’esperienza comune: questo è quello che bisogna portare con sé anche quanto il Giffoni sarà finito. Questa è una delle esperienze che amo: che non si esaurisce nel momento ma che lascia qualcosa e li rende cittadini del mondo”.
Visto il suo impegno umanitario, scontato chiedergli la sua opinione sul conflitto israelo-palestinese, domanda cui l’attore, buddista da anni, ha risposto in maniera filosofica: “Un maestro zen giapponese, molti anni fa, mi disse che lui non prendeva una decisione fino a che non riusciva ad abbassare il ritmo dei suoi respiri a 7 al minuto: con questo voleva dire che l’essere umano tende a reagire in maniera emotiva e impulsiva alle cose. Le prime reazioni che si hanno appartengono alla superficie: non riflettono, non vanno a fondo della coscienza. Non bisogna rimanere in superficie: bisogna arrivare al fondo della nostra coscienza per capire che noi siamo un tutt’uno e quindi la reazione violenta non ha senso. Ognuno di noi non dovrebbe reagire a un livello superficiale, ma trovare un’umanità e una connessione con l’altro che ci permetta di trovare un punto di contatto. Io non mi fido di quei leader che agiscono in questo modo impulsivo: bisogna trovare un modo di agire più profondo e spirituale. Sono ottimista riguardo al genere umano: noi siamo creature di gentilezza, che reagiscono positivamente all’amore e alla cura: se partissimo da qui credo che il 99% dei problemi si risolverebbe. Essere gentili, in maniera profonda, è il punto di partenza”.
Oltre alle sue lotte per l’ambiente e per la pace, Gere si impegna anche nel suo lavoro, ne è esempio il suo ultimo film, “Time Out of Mind”, diretto da Oren Moverman, progetto sui senza tetto cui tiene molto: “Il film aprirà il Toronto Film Festival, forse sarà anche al Festival di Roma e lì potrò parlarne con più calma. La sceneggiatura originale è stata scritta 25 anni fa: possono essere cambiati dei dettagli da allora, ma i problemi di queste persone sono sempre gli stessi. Quando ho avuto lo script 8 anni fa ho cominciato a riflettere su come affrontare e rappresentare questo mondo: ho avuto contatti con un’associazione di New York che si occupa dei senza tetto. New York è l’unica città al mondo in cui a queste persone deve essere fornito un letto per dormire la notte. Quindi in questo film abbiamo voluto rappresentare questo processo e la burocrazia che ne consegue. È stato un viaggio interiore per riuscire ad avere una connessione con questo mondo e con il personaggio. È stato riscritto e girato da Oren Movermen che è un regista eccezionale”.
Secondo Gere però storie di questo tipo sono sempre più difficili da portare al cinema, l’impegno infatti ormai si trova più nella televisione: “Questo è un grande momento di transizione per l’industria cinematografica: all’inizio della mia carriera ho fatto film impegnati che erano prodotti dai grandi studios. Oggi gli studios non fanno più quel tipo di film, che sono invece prodotti in modo indipendente, come il mio film sui senza tetto, preferiscono invece produrre pellicole piene di effetti speciali e violenza con poca originalità. Invece le serie tv possiedono un budget, degli sceneggiatori e una libertà che al cinema oggi manca. La televisione ormai è di livello altissimo e riesce a realizzare storie impegnate forse molto più del cinema. Magari in futuro saranno proprio i vari HBO e Netflix a fare film di questo tipo. Loro hanno a disposizione dei grandi talenti e un mezzo di distribuzione più capillare e vincente rispetto al cinema”.
Pubblicato su TvZap.
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