Sette anni dopo “The Yards” il trio Gray - Phoenix - Wahlbergh si ritrova.
I registi americani sembrano essersi messi d’accordo: nella stagione 2007/2008 quasi tutte le pellicole targate U.S.A hanno come protagonista principale la famiglia. A cominciare da quella depressa di “La famiglia Savage” di Tamara Jenkins e da quella da cui scappa il protagonista di “Into the wild” di Penn, passando ai fratelli omicidi protagonisti di “Sogni e delitti” di Woody Allen e a quelli diabolici di “Onora il padre e la madre” di Lumet, per finire con quella distrutta del barbiere “Sweeney Todd” di Burton e quella fasulla del “Petroliere” di Anderson, tutti hanno voluto analizzare la cellula fondamentale della società.
Anche in “I padroni della notte” la storia, ambientata negli anni ottanta, è incentrata su una famiglia particolare: Robert e Joseph sono fratelli, ma non potrebbero essere più diversi.
Joseph Grusinsky (Mark Wahlberg) è un poliziotto, come suo padre, che lotta costantemente contro i narcotrafficanti dei quartieri caldi di New York come Queens e Brooklyn.
Robert (Joaquin Phoenix), che si fa chiamare Bobby Green perchè non vuole che nel suo ambiente si sappia che proviene da un’intera famiglia di sbirri, gestisce un club alla moda a Brooklyn, dove i proprietari russi spacciano la droga di nascosto, e se la spassa a ritmo di musica disco, droga, alcool e sesso con la sua bellissima e appariscente fidanzata portoricana Amada (Eva Mendes).
Quando il rigoroso e severo padre Albert (Robert Duvall), nonché capo della polizia, chiede l’aiuto di Bobby per incastrare i mafiosi russi che smerciano droga nel suo locale, quest’ultimo, un po’ per affermare la sua autonomia, un po’ per sfida, si rifiuta. A causa di questa sua scelta, Joseph subisce un tremendo attentato da cui si salva per miracolo.
In preda ad atroci rimorsi, Bobby decide di cambiare vita e di aiutare il padre a vendicare il fratello: accetta di fare da talpa per la polizia, con tutti i rischi che questo comporta.
Seguono i soliti microfoni nascosti nei posti più impensabili, gli spacciatori cattivi che più cattivi non si può, le pistole, le sparatorie, gli spostamenti sotto copertura, le crisi con la fidanzata che non regge lo stress e tanto orgoglio e onore virile dei due fratelli che finalmente vanno d’accordo sotto l’autorevole guida paterna.
Alla fine però il morto ci scappa.
Gray per il suo terzo lungometraggio non cambia i temi: ancora criminali, ancora i bassifondi di New York, ancora famiglie in tensione. E, come è già accaduto per “The Departed” e “American Gangster”, tutto sa di già visto, già fatto, già detto.
In America ormai i film del genere gangster-movie sono come le commedie dolci-amare di tradimenti coniugali e trentenni in crisi da noi: ogni tanto se ne fa uno, il prodotto è così così e le idee sempre uguali. Certo gli americani possono contare su registi di talento, grandi mezzi e attori fuoriclasse, ma il risultato è sempre lo stesso: la solita minestra riscaldata.
Anche gli attori, che dovevano affrontare tutti personaggi che hanno già interpretato più volte, sembrano essersi adagiati su una recitazione standard: Phoenix fa il solito uomo estremo, vizioso, annebbiato da droghe e alcool, a volte folle, a volte più saggio, Wahlberg fa ancora una volta il poliziotto tutto d’un pezzo, che sembra tanto Capitan America, Eva Mendes si limita a mostrare le sue prorompenti grazie e Duvall è come fossilizzato nella sua maschera granitica di uomo duro ed incorruttibile. Non mancano comunque due sequenze spettacolari e riuscitissime come l’inseguimento sotto la pioggia e quello nel campo di grano, ma Gray, con i mezzi e il grandissimo cast di cui disponeva, poteva fare di più.
Ridicola l’analisi psicologica dei personaggi: alla fine tutto si limita alla parabola del figliol prodigo, al fratello perfetto che in realtà avrebbe voluto essere più libero e dissoluto come l’altro, che è sempre stato trattato come la pecora nera, che a sua volta vuole solo essere amato dal padre severo, e al vecchio dogma “il sangue non è acqua, la famiglia è la famiglia”. Ormai, visto che film come “Non è un paese per vecchi” o “Onora il padre e la madre” ci hanno portato molto più in là per tutto ciò che riguarda l’introspezione psicologica dei personaggi e l’analisi della società, non si può avere la pretesa di costruire un grande dramma senza profondi temi di base e una sceneggiatura impeccabile.
Il finale poi è in controtendenza: qui alla fine una speranza c’è, ma risulta forzata, falsa e totalmente fuori posto, al contrario di tutti i film che hanno emozionato in questo ultimo anno in cui il futuro è visto nerissimo.
Insomma grande spettacolo: ma niente di più.
Anche in “I padroni della notte” la storia, ambientata negli anni ottanta, è incentrata su una famiglia particolare: Robert e Joseph sono fratelli, ma non potrebbero essere più diversi.
Joseph Grusinsky (Mark Wahlberg) è un poliziotto, come suo padre, che lotta costantemente contro i narcotrafficanti dei quartieri caldi di New York come Queens e Brooklyn.
Robert (Joaquin Phoenix), che si fa chiamare Bobby Green perchè non vuole che nel suo ambiente si sappia che proviene da un’intera famiglia di sbirri, gestisce un club alla moda a Brooklyn, dove i proprietari russi spacciano la droga di nascosto, e se la spassa a ritmo di musica disco, droga, alcool e sesso con la sua bellissima e appariscente fidanzata portoricana Amada (Eva Mendes).
Quando il rigoroso e severo padre Albert (Robert Duvall), nonché capo della polizia, chiede l’aiuto di Bobby per incastrare i mafiosi russi che smerciano droga nel suo locale, quest’ultimo, un po’ per affermare la sua autonomia, un po’ per sfida, si rifiuta. A causa di questa sua scelta, Joseph subisce un tremendo attentato da cui si salva per miracolo.
In preda ad atroci rimorsi, Bobby decide di cambiare vita e di aiutare il padre a vendicare il fratello: accetta di fare da talpa per la polizia, con tutti i rischi che questo comporta.
Seguono i soliti microfoni nascosti nei posti più impensabili, gli spacciatori cattivi che più cattivi non si può, le pistole, le sparatorie, gli spostamenti sotto copertura, le crisi con la fidanzata che non regge lo stress e tanto orgoglio e onore virile dei due fratelli che finalmente vanno d’accordo sotto l’autorevole guida paterna.
Alla fine però il morto ci scappa.
Gray per il suo terzo lungometraggio non cambia i temi: ancora criminali, ancora i bassifondi di New York, ancora famiglie in tensione. E, come è già accaduto per “The Departed” e “American Gangster”, tutto sa di già visto, già fatto, già detto.
In America ormai i film del genere gangster-movie sono come le commedie dolci-amare di tradimenti coniugali e trentenni in crisi da noi: ogni tanto se ne fa uno, il prodotto è così così e le idee sempre uguali. Certo gli americani possono contare su registi di talento, grandi mezzi e attori fuoriclasse, ma il risultato è sempre lo stesso: la solita minestra riscaldata.
Anche gli attori, che dovevano affrontare tutti personaggi che hanno già interpretato più volte, sembrano essersi adagiati su una recitazione standard: Phoenix fa il solito uomo estremo, vizioso, annebbiato da droghe e alcool, a volte folle, a volte più saggio, Wahlberg fa ancora una volta il poliziotto tutto d’un pezzo, che sembra tanto Capitan America, Eva Mendes si limita a mostrare le sue prorompenti grazie e Duvall è come fossilizzato nella sua maschera granitica di uomo duro ed incorruttibile. Non mancano comunque due sequenze spettacolari e riuscitissime come l’inseguimento sotto la pioggia e quello nel campo di grano, ma Gray, con i mezzi e il grandissimo cast di cui disponeva, poteva fare di più.
Ridicola l’analisi psicologica dei personaggi: alla fine tutto si limita alla parabola del figliol prodigo, al fratello perfetto che in realtà avrebbe voluto essere più libero e dissoluto come l’altro, che è sempre stato trattato come la pecora nera, che a sua volta vuole solo essere amato dal padre severo, e al vecchio dogma “il sangue non è acqua, la famiglia è la famiglia”. Ormai, visto che film come “Non è un paese per vecchi” o “Onora il padre e la madre” ci hanno portato molto più in là per tutto ciò che riguarda l’introspezione psicologica dei personaggi e l’analisi della società, non si può avere la pretesa di costruire un grande dramma senza profondi temi di base e una sceneggiatura impeccabile.
Il finale poi è in controtendenza: qui alla fine una speranza c’è, ma risulta forzata, falsa e totalmente fuori posto, al contrario di tutti i film che hanno emozionato in questo ultimo anno in cui il futuro è visto nerissimo.
Insomma grande spettacolo: ma niente di più.
La citazione: "Se sposi una scimmia poi non puoi lamentarti della puzza di banana!"
Voto: ♥♥♥
Pubblicato su Meltin' Pot.
già, candalù in italiano
RispondiEliminacome d'altronde Citizen kane diventa Quarto potere...
buona pasquetta (anche se ormai siamo agli sgoccioli
Bonek
ohy... ho provato di nuovo con la mail e stesso feci con facebook vedimpo'!
RispondiEliminasu quel La frase dovremmo mettere il copyright a Filmup...;-)
RispondiEliminaComunque sia non sono molto d'accordo con il giudizio così così del film.La psicologia è spicciola perchè l'obiettivio del film è l'affronto di tutti gli spunti narrativi tipici del poliziesco in maniera diretta e concentrata sull'azione. Lo spiazzamento dello spettatore non è solo nel finale, anche prima quando ti potresti, per esempio, a)aspettare un film sul fratello infiltrato b)pensi ad un film sulla protezione testimoni, ect ect.
Ci sono chiari omaggi al cinema di Friedkin e al poliziesco anni '70 in generale, non si ricerca la spettacolarità a tutti i costi e questo già lo distanzia di molto dal cinema mainstream americano.
A parte tutto, ci vediamo alla prossima anteprima (che per me credo sarà non prima dell'8 Aprile).
Ciao!
Lo sapevo che mi avresti detto una cosa del genere!
RispondiEliminaMa guarda che io sono la maga delle citazioni da almeno 10-12 anni!
Quindi molto prima di filmup e di tutti quei libri che hanno pubblicato
Con mio fratello ci sfidiamo anche (e vinco sempre io!).
Vorrà dire che cambierò il nome con "la citazione".
Per il film: ripeto, tutto questo "citazionismo" a me non piace affatto, mi sa di rubato, scopiazzato e sterile.
Come "Intrigo a Berlino" di Soderbergh: questi giocattoloni per cinefili a me non dicono nulla, non mi emozionano, li trovo freddi e inutili!
Poi il regista può essere anche molto bravo, ma si rifornisce al supermercato delle idee!
Per la prossima anteprima: il 31 vado all'incontro con Vaporidis alla Casa del cinema.
Per il prossimo film ancora non so.
"Gentile da parte vostra trovare il tempo per farmi visita!"
"Ciao straniero!"
(queste sono troppo facili come citazioni!)
Sostanzialmente d'accordo ma non del tutto. Il film non dice nulla di nuovo e si avvale di una sceneggiatura a tratti davvero molto spicciola nel delineare i personaggi, però ha una regia quasi perfetta (le sequenze da te citate sono fenomenali) una bellissima colonna sonora e due attori protaognisti a mio avviso straordinari e cioè Duvall e Phoenix. Sottotono Walbherg e dimenticabile la Mendes. Per il resto non credo che il film avesse la pretesa di ergersi a capolavoro del genere poliziesco, però riesce ad intrattenere senza fare troppi danni insomma. Il finale a mio avviso è molto inverosimile (nel senso come è possibile che Joaquin faccia quello che fa davanti ai poliziotti che alla fine gli danno pure la medaglia?). Comunque, a mio avviso un bel filmetto va.
RispondiEliminaAle55andra
una recensione assolutamente ignobile :) il film è un capolavoro del cinema degli ultimi anni.
RispondiEliminanon hai capito niente.